Tornato nella casa di Primrose Hill, Godolphin trascorse la notte in piedi ascoltando i notiziari che parlavano della tragedia. Il numero dei morti cresceva ogni ora; due altre vittime erano appena spirate in ospedale. Da ogni parte venivano avanzate ipotesi circa la causa dell'incendio, e i sapientoni sfruttavano l'accaduto per censurare i bassi livelli di sicurezza richiesti per i luoghi in cui si accampavano i senzatetto, e reclamando un'inchiesta parlamentare che impedisse il ripetersi di simile disgrazie.

Le cronache lo spaventarono. Sì, era stato lui a concedere a Dowd la libertà di uccidere il mystif e chissà qual era il motivo vero che si celava dietro questo desiderio di Dowd. Ma la creatura aveva comunque abusato della libertà concessale. Un tale abuso avrebbe dovuto essere punito in qualche modo, anche se Godolphin non era dell'umore adatto per pensarci. Non c'era fretta, però; avrebbe scelto il momento opportuno. Intanto, la violenza di Dowd gli parve l'ulteriore prova di un comportamento alterato. Le cose che aveva considerato immutabili stavano cambiando. Il potere stava sfuggendo dalle mani di coloro che tradizionalmente lo detenevano per trasferirsi in quelle di subalterni intrallazzatori, famigli e funzionari certo poco preparati a usarlo. Il disastro della notte precedente era sintomatico. Ma il male non aveva neanche cominciato a prendere piede. Una volta che si fosse diffuso per i Domini, non ci sarebbe stato modo di fermarlo. C'erano già state sommosse su Vanaeph e L'Himby, si parlava di ribellione a Yzordderrex; e ora ci sarebbe stata un'epurazione qui nel Quinto Dominio, organizzata dalla Tabula Rasa: uno sfondo perfetto per la vendetta di Dowd. Dovunque, segni di dissoluzione.

Paradossalmente, il più agghiacciante di quei segni aveva l'aspetto di un'immagine di ricostruzione: quella di Dowd che rimodellava il proprio viso in modo da non farsi riconoscere dai membri della Società. Era un rito che ogni nuova generazione aveva compiuto, ma questa era la prima volta che Godolphin vi assisteva. Ripensandoci, Oscar sospettò che Dowd avesse deliberatamente messo in mostra i suoi poteri di trasformazione, come ulteriore prova della sua ritrovata autorità. Aveva funzionato. Vedere il viso al quale si era tanto abituato ammorbidirsi e mutare secondo la volontà del suo possessore fu uno degli spettacoli più sconvolgenti cui Oscar avesse mai assistito. Il viso che Dowd aveva infine scelto era senza baffi e sopracciglia; i capelli più chiari rispetto a prima e nel complesso un aspetto più giovane: i tratti erano quelli del nazionalsocialista ideale. Anche Dowd dovette aver colto questa sfumatura, perché in seguito si tinse i capelli e comprò numerosi abiti nuovi, tutti color albicocca, ma di taglio assai più severo di quelli che aveva indossato durante la sua incarnazione precedente. Anche lui, come Oscar, presentiva i momenti di instabilità che li attendevano; sentiva il marcio nel corpo politico, e si stava preparando a una Nuova Austerità.

E quale strumento migliore del fuoco, gioia dei distruttori di libri, benedizione dei purificatori di anime? Oscar tremò, pensando al piacere che Dowd aveva tratto dal lavoro di quella notte, uccidendo con indifferenza intere famiglie umane innocenti mentre cacciava il mystif. Di sicuro sarebbe tornato a casa con il viso grondante di lacrime, dicendo che gli dispiaceva per quanto aveva fatto ai bambini. Ma sarebbe stata una recita, una finzione. In quella creatura non c'era alcuna capacità di provare dolore o pentimento, e Oscar lo sapeva. Dowd era la falsità personificata, e da quel momento in poi Oscar sapeva che avrebbe dovuto stare in guardia. Gli anni comodi erano finiti. D'ora in poi avrebbe dormito con la porta della sua stanza da letto chiusa a chiave.

 

15

 

I

 

Nella collera che il complotto di Estabrook aveva suscitato in lei, Jude contemplò diversi modi per vendicarsi di lui, da quelli intimamente sanguinari ai classicamente distaccati. Ma anche stavolta la sua natura non cessò di sorprenderla. Tutte le fantasie di coltelli e procedimenti giudiziari scomparvero non appena iniziò a rendersi conto che il danno peggiore che poteva provocargli - anche tenuto conto del fatto che i suoi progetti di farle del male erano stati interrotti - era di ignorarlo. Perché dargli la soddisfazione di dimostrare un qualunque interesse verso di lui? D'ora in poi l'avrebbe disprezzato al punto da considerarlo invisibile. Si era sfogata raccontando la sua storia a Taylor e Clem, e non cercò altro pubblico. D'ora in poi non si sarebbe insudiciata le labbra con il suo nome, né avrebbe lasciato che i suoi pensieri si soffermassero su di lui per più di due secondi. Per lo meno, quello fu il patto che fece con se stessa. Patto che si dimostrò difficile da mantenere. Il giorno di Santo Stefano ricevette la prima di quella che sarebbe diventata una lunga serie di telefonate, e la interruppe non appena riconobbe la sua voce. Non si trattava dell'Estabrook autoritario che era abituata a sentire, e dovette chiedere chi era per tre volte, prima di riconoscere la persona all'altro capo della linea: allora interruppe la comunicazione e lasciò staccato il ricevitore per il resto del giorno. La mattina seguente lui chiamò ancora, e questa volta Judith, per togliere di mezzo ogni dubbio, gli disse:

"Non voglio mai più sentire la tua voce," e riattaccò.

Subito dopo aver interrotto la comunicazione, si rese conto che lui aveva singhiozzato mentre parlava, cosa che le diede grande soddisfazione e la speranza che non ci avrebbe riprovato. Speranza vana: Estabrook chiamò due volte quella sera, lasciando messaggi sulla segreteria telefonica mentre lei era a una festa da Chester Klein. Lì Judith apprese alcune novità su Gentle, che non aveva più sentito dal giorno del loro strano commiato allo studio. Chester, che la vodka rendeva ancora più sgradevole, le disse semplicemente che si aspettava che Gentle avrebbe avuto un forte esaurimento nervoso da un momento all'altro. Aveva parlato due volte al Piccolo Bastardo dopo Natale, e lo aveva trovato sempre più incoerente.

"Che cosa avete tutti voi uomini?" si ritrovò a dire Judith. "Cadete in pezzi tanto facilmente."

"È perché noi siamo il sesso più eroico," rispose Chester. "Dio, donna, non vedi quanto soffriamo?"

"Francamente no."

"E invece sì. Credimi, soffriamo."

"C'è un motivo particolare o è solo una libera forma di sofferenza?"

"Siamo completamente sigillati," disse Klein, "non può entrare niente."

"Anche le donne. Qual è la..."

"Le donne si fanno fottere," la interruppe Klein, pronunciando la parola con ebbra sicurezza. "Oh, so cosa dite, ma vi piace. Forza, ammettilo. Ti piace."

"Insomma, la sola cosa che gli uomini vogliono veramente è di farsi fottere a loro volta. È così?" disse Jude. "O stai parlando solo a titolo personale?"

Questo provocò un lieve suono di risate da parte di coloro che avevano interrotto le conversazioni per osservare quei fuochi d'artificio.

"Non alla lettera," sputò Klein. "Tu non mi stai a sentire."

"Ti sto ascoltando. E solo che quel che dici non ha senso."

"Prendi la Chiesa..."

"Me ne fotto della Chiesa!"

"No, ascolta!" disse Klein a denti stretti. "Adesso sto dicendo la fottuta onesta verità divina. Perché credi che gli uomini abbiano inventato la Chiesa, eh? Eh?"

Tutta quell'enfasi aveva irritato Jude al punto che rifiutò di rispondere. Lui continuò, imperturbabile, con la pedanteria di uno studente un po' tardo.

"Gli uomini hanno inventato la Chiesa in modo da poter sanguinare per Cristo. In modo da poter entrare nello Spirito Santo. In modo da poter uscire dalla loro condizione di esseri sigillati." Finita la lezione, si appoggiò allo schienale della sedia, alzando il bicchiere. "In vodka veritas," disse.

"In vodka merda," replicò Jude.

"Fai sempre così, vero?" disse con voce da ubriaco Klein. "Non appena qualcuno ti ha battuta ti metti a insultare."

Lei gli girò le spalle, scuotendo la testa per congedarsi. Ma Klein aveva ancora una freccia al suo arco.

"È così che fai impazzire il Piccolo Bastardo?" disse.

Judith si girò verso di lui, piccata.

"Tienilo fuori," gli disse bruscamente.

"Lo vuoi vedere sigillato?" chiese Klein. "Ecco il tuo bell'esempio. È fuori di sé, lo sai?"

"Chi se ne frega?" disse lei. "Se vuole avere un esaurimento nervoso, padronissimo."

"Come sei umana."

A questo punto Judith si alzò, sapendo di essere pericolosamente vicina a perdere completamente la pazienza.

"Conosco la scusa del Piccolo Bastardo," continuò Klein. "È anemico. Ha sangue sufficiente solo per il cervello o per il cazzo. Se ha un erezione, non si ricorda neanche più come si chiama."

"Non saprei," disse Jude, facendo girare il ghiaccio nel bicchiere.

"È anche la tua scusa?" continuò Klein. "Hai qualcosa là sotto di cui non ci hai parlato?"

"Se così fosse," disse, "tu saresti l'ultimo a saperlo."

E, dicendo ciò, rovesciò il suo drink, ghiaccio e tutto, dentro la camicia aperta dell'uomo.

Naturalmente più tardi se ne pentì, mentre guidava verso casa cercando di inventare un modo per fare pace con lui senza scusarsi. Non riuscendoci, decise di lasciare perdere. Aveva già litigato con Klein, sia da sobrio sia da ubriaco. Se ne dimenticava dopo un mese, due al massimo.

Tornata a casa trovò altri messaggi di Estabrook ad aspettarla. Non singhiozzava più. La sua voce era diventata una nenia incolore, frutto di quella che doveva essere vera e propria disperazione. La prima telefonata conteneva le solite preghiere che aveva già sentito: Estabrook le diceva che stava perdendo la testa, e che aveva bisogno di lei. Non poteva almeno chiamarlo e lasciare che si spiegasse? La seconda era meno coerente. Diceva che lei non capiva di quanti segreti lui, Estabrook, fosse a conoscenza; quanto fosse pieno di segreti, e che ciò lo uccideva. Non poteva tornare per vederlo, disse, anche soltanto per riprendersi i vestiti?

Quella era probabilmente l'unica parte della sua uscita di scena che Judith avrebbe cambiato se avesse potuto recitarla ancora. Presa dalla collera, aveva lasciato una bella collezione di oggetti personali, gioielli e indumenti in possesso di Estabrook. Ora lo immaginava mentre singhiozzava su di loro, li annusava, sa Dio, forse anche li indossava. Ma per quanto fosse seccata per non averli portati con sé, non aveva alcuna intenzione di scendere a patti con lui per riaverli. Sarebbe venuto un momento in cui, ricuperata la calma, avrebbe trovato la forza di tornare a svuotare gli armadi e i cassetti: ma non ora.

Dopo quella notte non ci furono ulteriori telefonate. Con l'anno nuovo alle porte, per Judith era giunto il momento di volgere la sua attenzione al problema di come guadagnarsi il pane in gennaio. Aveva dato le dimissioni da Vandenburgh quando Estabrook le aveva chiesto di sposarlo, e aveva goduto liberamente dei suoi soldi quando stavano insieme, sicura che, se mai si fossero lasciati, lui si sarebbe preoccupato di darle una sistemazione onorevole. Non aveva previsto né il profondo disagio che alla fine l'aveva allontanata da lui (la sensazione di essere quasi un possesso privato, e che se fosse rimasta con quell'uomo un momento di più non sarebbe mai riuscita a liberarsi da quelle catene) né l'intensità del suo desiderio di vendetta. Sarebbe venuto anche il momento in cui si sarebbe sentita in grado di affrontare un divorzio che li avrebbe entrambi trascinati nel fango ma, come per la questione dei vestiti, non si sentiva ancora pronta per una fatica del genere, anche se la causa di separazione le avrebbe procurato dei soldi. Nel frattempo, doveva pensare a trovarsi un lavoro.

Poi, il 30 dicembre, ricevette una telefonata dall'avvocato di Estabrook, Lewis Leader, un uomo che aveva incontrato una sola volta, ma la cui loquacità era davvero memorabile. In quell'occasione, però, non si preoccupò di farne troppo sfoggio. Sapeva, le chiese, che Estabrook era in ospedale? Quando Judith gli rispose che non lo sapeva, Leader replicò che benché fosse sicuro che a lei non importasse affatto, gli era stato affidato il compito di informarla. Quando gli chiese cosa fosse successo, lui le spiegò velocemente che Estabrook era stato trovato per strada nelle prime ore del 28, con indosso un solo indumento. Non specificò quale.

"È ferito?" chiese.

"Non fisicamente," replicò Leader. "Ma la sua salute mentale è in cattivo stato. Pensavo che lei dovesse saperlo, anche se sono sicuro che lui non vorrebbe vederla."

"Sono certa che ha ragione."

"Per quello che vale," disse Leader, "si meritava qualcosa di meglio."

Dopo questa affermazione, l'avvocato interruppe la comunicazione, lasciando Jude a chiedersi perché gli uomini a cui si univa si rivelavano presto o tardi tutti pazzi. Solo due giorni prima le avevano predetto che Gentle sarebbe presto stato vittima di un esaurimento nervoso. Adesso era Estabrook a essere sotto sedativi. Era la sua presenza nelle loro vite che li spingeva a questo, o avevano la pazzia nel sangue? Pensò di chiamare Gentle allo studio, per vedere se stava bene, poi ci ripensò. Aveva il suo dipinto con cui fare l'amore, e lei si sarebbe dannata piuttosto che competere per la sua attenzione con un pezzo di tela.

Nelle notizie datele da Leader scorse però un'opportunità. Ora che stava in ospedale, niente le impediva di visitare la casa di Estabrook e raccogliere le proprie cose. Era il progetto adatto per l'ultimo giorno di dicembre. Avrebbe raccolto i resti della sua vita dal covo del marito e si sarebbe preparata a iniziare il nuovo anno da sola.

 

II

 

Estabrook non aveva cambiato la serratura, forse nella speranza che lei sarebbe tornata una notte, per scivolargli accanto nel sonno. Quando però Judith entrò nella casa, non riuscì a liberarsi della sensazione di essere una ladra. Fuori era buio, e accese tutte le luci, ma le stanze sembravano resistere all'illuminazione, come se l'odore di cibo andato a male, che era pungente, ispessisse l'aria. Entrò nella cucina in cerca di qualcosa da bere prima di mettersi a fare le valigie, e trovò piatti di cibo avariato sparsi ovunque, per la maggior parte appena assaggiati. Aprì prima una finestra, poi il frigorifero che conteneva altro cibo rancido. C'erano anche ghiaccio e acqua. Li versò entrambi in un bicchiere pulito e si mise al lavoro.

Di sopra c'era lo stesso disordine del piano di sotto. Evidentemente Estabrook era vissuto nello squallore dalla sua partenza, il letto che avevano diviso era diventato una palude di lenzuola sporche e il pavimento era ingombro di biancheria macchiata. Ma tra quei mucchi non c'era traccia di nessuno dei suoi indumenti, e quando andò nel vestibolo adiacente li trovò tutti appesi al loro posto, intatti. Decisa a portare a termine quella sgradevole operazione nel più breve tempo possibile, trovò un set di valigie e iniziò a riempirle. Non le ci volle molto. Quando ebbe finito con i vestiti, vuotò i cassetti delle sue cose e le mise anch'esse nella valigia. I suoi gioielli erano nella cassaforte al piano di sotto, e una volta finito in camera da letto si diresse lì, lasciando le valigie vicino all'ingresso principale per prenderle mentre usciva. Anche se sapeva dove Estabrook ne teneva la chiave, Judith non aveva mai aperto la cassaforte da sola. Era un rituale che il marito aveva preteso venisse osservato rigorosamente: quando, la sera, Judith voleva indossare uno dei gioielli che lui le aveva regalato, il marito le chiedeva prima quale preferisse, poi andava a prenderlo dalla cassaforte e glielo metteva intorno al collo, o al polso, o nel buco dell'orecchio con le sue stesse mani.

Con il senno di poi, Judith riconobbe in quel rituale un chiaro gioco di potere. Si chiese in che tipo di condizione mentale si trovasse quando stava con lui, per aver sopportato certe idiozie per tanto tempo. Sì, certo i lussi dei quali la circondava erano piacevoli, ma perché era stata tanto passiva? Tutto ciò era grottesco.

La chiave della cassaforte era dove Judith si aspettava di trovarla, nascosta nel retro del cassetto della scrivania nello studio. Quanto alla cassaforte, era dietro una rappresentazione architettonica appesa alla parete dello studio: prospettive di una pazzia pseudoclassica che l'artista aveva semplicemente battezzato l'Eremo. La cornice era molto più lavorata di quanto il quadro si meritasse, e Judith ebbe qualche difficoltà nel sollevarla. Ma infine vi riuscì ed ebbe accesso alla cassaforte che nascondeva.

C'erano due scomparti: quello in basso pieno di carte, quello superiore di pacchetti. Tirò tutto fuori e lo mise sulla scrivania, mentre la curiosità aveva il sopravvento sul desiderio di prendere quello che era suo e andarsene. Due dei pacchetti contenevano chiaramente dei gioielli, ma gli altri tre erano più interessanti, soprattutto perché erano avvolti in una stoffa fine come la seta, e non avevano l'odore della cassaforte, ma un altro, speziato: dolce, quasi nauseante. Judith aprì prima il più grande. Conteneva un manoscritto, fatto di pagine di pergamena tenute insieme da un'elaborata cucitura. Privo di una copertina, sembrava una raccolta di pagine raggnippate arbitrariamente, forse appartenenti a trattati anatomici: o almeno questo fu ciò che Judith immaginò inizialmente. A una seconda occhiata, invece, capì che non si trattava affatto di un manuale chirurgico, bensì un livre de chevet che descriveva posizioni e tecniche sessuali. Sfogliandolo, si augurò sinceramente che l'artista fosse rinchiuso in qualche luogo dove non potesse tentare di mettere in pratica le sue fantasie. La carne umana non era né malleabile, né sufficientemente proteiforme da ricreare quello che pennello e inchiostro avevano fissato su quelle pagine. C'erano coppie avvinghiate come calamari in lotta; altre che sembravano essere state benedette (o maledette) da organi e orifizi talmente strani e in tale profusione da essere difficilmente attribuibili a esseri umani.

Sfogliò le pagine avanti e indietro, e il suo interesse la riportò alla doppia pagina centrale le cui illustrazioni erano sistemate in sequenza. Il primo disegno mostrava un uomo nudo e una donna di aspetto perfettamente normale, la donna sdraiata con la testa su un cuscino, mentre l'uomo era inginocchiato tra le sue gambe e applicava la lingua alla pianta del piede di lei. A questo inizio innocente seguiva un'unione cannibalesca: l'uomo cominciava a divorare la donna, iniziando dalle gambe, lei lo imitava nello stesso atto di devozione. Le loro azioni sfidavano la fisica, naturalmente, eppure l'artista era riuscito a rendere l'atto in modo privo di bizzarria, quasi si trattasse delle istruzioni per un numero di illusionismo. Fu solo quando chiuse il libro e continuò a vedere nella sua mente quelle immagini angosciose che, per rimuoverle, Judith trasformò il proprio turbamento in profonda collera contro Estabrook: non solo comprava tali bizzarrie, ma gliele nascondeva anche. Una ragione in più per abbandonarlo.

Un altro pacchetto conteneva un oggetto molto più innocente: qualcosa che pareva essere un frammento di statua grande come il suo pugno. Su una faccia era stato rozzamente inciso qualcosa che poteva essere un occhio lacrimante, il capezzolo di una donna che allatta o una gemma che trasuda linfa. Le altre facce rivelavano la natura del blocco sul quale era stata scolpita l'immagine. Il colore predominante era un azzurro latteo, ma venato di nero e rosso. Tenere quel frammento tra le mani le diede una sensazione piacevole, per cui lo depose con riluttanza per aprire il terzo pacchetto. Vi trovò dentro degli oggetti quantomai graziosi: una mezza dozzina di perle grandi come piselli, che erano state lavorate con cura ossessiva. Aveva già visto avori orientali intarsiati con quella precisione, ma sempre dietro le vetrine dei musei. Ne prese una e si avvicinò alla finestra dello studio per esaminarla più da vicino. L'artista aveva lavorato la perla per dare l'impressione che fosse una palla di filo sottilissimo, avvolto su se stesso. Curioso, e stranamente invitante. Mentre se la rigirava tra le dita sentì la sua attenzione concentrarsi fino a restringersi esclusivamente allo squisito intreccio dei fili, quasi che nella palla ci fosse un'estremità da trovare, e che, se solo ci fosse riuscita, la sua mente avrebbe potuto svolgere la perla e scoprire qualche mistero al suo interno. Dovette fare forza su se stessa per distogliere lo sguardo, altrimenti, e se ne rese conto improvvisamente, la volontà della perla avrebbe avuto il sopravvento sulla sua, e lei sarebbe rimasta a guardarne i dettagli fino all'estenuazione.

Tornò alla scrivania e rimise la perla tra le altre. Fissarla così intensamente aveva in qualche modo turbato il suo equilibrio. Si sentiva leggermente stordita, e mentre frugava tra le cose che aveva lasciato sul tavolo non riusciva a metterle a fuoco. Ma le sue mani sapevano cosa volevano, anche se i suoi pensieri non se ne rendevano conto. Una di esse raccolse il frammento di pietra azzurro, mentre l'altra tornò alla perla che aveva messo da parte. Due souvenir: perché no? Un pezzo di pietra e una perla. Chi avrebbe potuto incolparla per aver preso a Estabrook due cose prive di importanza quando lui voleva farle tanto male? Le mise entrambe in tasca senza ulteriori esitazioni, e riavvolse nei panni il libro e le perle rimanenti, rimettendo tutto nella cassaforte. Poi prese il panno in cui il frammento era stato avvolto, se lo mise in tasca, prese i gioielli, e tornò alla porta principale, spegnendo le luci mentre usciva. Sulla porta ricordò di aver aperto la finestra della cucina, e tornò indietro per chiuderla. Non voleva che in sua assenza la casa venisse svaligiata. C'era un solo ladro che aveva il diritto di entrare lì: lei.

 

III

 

Si sentiva assai soddisfatta del lavoro fatto durante la mattinata e si concesse un bicchiere di vino per accompagnare il suo pranzo spartano prima di cominciare a disfare la valigia con il bottino. Mentre spargeva gli indumenti-ostaggio sul letto, i suoi pensieri ritornarono al libro. Ora le dispiaceva averlo lasciato; sarebbe stato il regalo perfetto per Gentle, il quale senza dubbio era certo di aver conosciuto tutti gli eccessi sessuali possibili a questo mondo. Pazienza. Uno di quei giorni avrebbe trovato il modo di descrivergli il contenuto del libro, stupendolo con la sua memoria per le depravazioni.

Una chiamata di Clem interruppe il suo lavoro. L'amico parlava tanto piano che lei dovette sforzarsi per sentire. C'erano cattive notizie. Taylor stava per morire, disse Clem: era stato colpito da un altro attacco di polmonite due giorni prima. Rifiutava però di farsi ricoverare in ospedale. Il suo ultimo desiderio, aveva detto, era di morire lì dove era vissuto.

"Continua a chiedere di Gentle," spiegò Clem. "E io ho cercato di telefonargli ma non risponde. Sai se è partito?"

"Non credo," rispose Judith. "Non lo sento dalla notte di Natale."

"Potresti cercare di trovarlo per me? O piuttosto per Taylor. Potresti magari provare ad andare allo studio e svegliarlo? Ci andrei io, ma non oso allontanarmi da casa. Temo che non appena sarò uscito..." esitò, aggiungendo poi con voce rotta dalle lacrime "...se succede qualcosa voglio essere lì."

"Ma è naturale. Certo che ci vado. Vado immediatamente."

"Grazie. Non credo che rimanga molto tempo, Judy."

Judith prima di uscire tentò di telefonare a Gentle, ma come le aveva detto prima Clem nessuno rispose. Dopo due tentativi rinunciò, si mise la giacca e uscì dirigendosi verso la macchina. Quando mise la mano in tasca per prendere le chiavi, si rese conto di aver portato con sé il sasso e la perla, e una qualche superstizione la fece esitare, inducendola a chiedersi se non li dovesse lasciare a casa. Ma il tempo stringeva. Se li teneva in tasca, chi poteva vederli? E anche se li avessero visti, che importanza aveva? Con la morte nell'aria, chi si sarebbe curato di qualche frammento rubato?

 

La notte in cui aveva lasciato Gentle allo studio, Judith aveva scoperto che, stando dall'altro lato della strada, lo si poteva vedere attraverso la finestra: perciò quando lui non aprì la porta andò lì per spiarlo. La stanza sembrava vuota, ma la lampadina nuda era accesa. Dopo circa un minuto Gentle entrò nella sua visuale: era privo di camicia, e bagnato fradicio. Lei aveva polmoni potenti, e li usò ora, per gridare il suo nome. Lui dapprima parve non sentire. Ma lei ritentò, e questa volta Gentle guardò nella sua direzione, avvicinandosi alla finestra.

"Fammi entrare!" urlò Judith. "È un'emergenza."

Quando Gentle le aprì la porta, lei gli lesse sul viso la stessa riluttanza che aveva visto mentre si allontanava dalla finestra. Se aveva avuto un brutto aspetto alla festa, ora pareva in condizioni ancora peggiori.

"Qual è il problema?" chiese subito.

"Taylor sta molto male, e Clem dice che continua a chiedere di te." Gentle parve stupefatto, come se avesse difficoltà a ricordare chi fossero Taylor e Clem. "Devi lavarti e vestirti," continuò lei. "Furie, mi stai ascoltando?"

In passato, quando era irritata con lui lo aveva sempre chiamato Furie, e quel nome parve avere sull'uomo un effetto miracoloso. Judith si aspettava ancora qualche obiezione, data la sua fobia per le malattie, ma non ve ne furono. Pareva troppo sfinito per discutere, e il suo sguardo era inquieto, come se avesse un luogo in cui voleva riposare, ma non riuscisse a trovarlo. Lo seguì su per le scale verso lo studio.

"Sarà meglio che mi lavi," disse Gentle lasciandola in mezzo al caos e dirigendosi in bagno.

Si udì scrosciare l'acqua della doccia. Come sempre, Gentle aveva lasciato spalancata la porta del bagno. Non c'era funzione corporea, fino a quelle più essenziali, per la quale avesse mai mostrato il minimo imbarazzo: un atteggiamento che dapprima l'aveva scossa, ma che dopo un po' aveva cominciato a dare per scontato, tanto che quando era andata a vivere con Estabrook aveva dovuto imparare da capo le leggi della decenza.

"Mi cerchi una camicia pulita?" le gridò. "E della biancheria."

Evidentemente per Judith quella era la giornata delle perquisizioni. Quando riuscì a trovare una camicia di jeans e un paio di boxer ormai slavati, lui era già uscito dalla doccia, e si pettinava all'indietro i capelli bagnati, in piedi davanti allo specchio del bagno. Il suo corpo non era cambiato dall'ultima volta che lei lo aveva visto nudo. Era magro come sempre, natiche e stomaco saldi, torace liscio. Il cazzo incappucciato attirò il suo sguardo. In quello stato di passività non era di grandi dimensioni, ma era carino lo stesso. Anche se sapeva di essere osservato Gentle non lo diede a vedere. Si guardò allo specchio senza affetto, poi scosse la testa.

"Devo radermi?" disse.

"Non mi preoccuperei di questo," rispose lei. "Ecco i tuoi vestiti."

Gentle si vestì velocemente e andò in camera da letto a cercare un paio di stivali, lasciandola nel frattempo a oziare nello studio. Il dipinto che aveva visto la notte di Natale era scomparso, e gli strumenti da lavoro - colori, cavalietto e tele mesticate - erano state gettati in un angolo senza tante cerimonie. Al loro posto, giornali, la maggior parte dei quali aperti sulla notizia di una tragedia che lei aveva notato solo di sfuggita: la morte di ventun persone tra uomini, donne e bambini in un incendio doloso nella zona sud di Londra. Judith non si soffermò sugli articoli: c'erano già abbastanza cose per cui addolorarsi in quella notte buia.

 

Clem era pallido ma non piangeva. Li abbracciò entrambi sulla porta d'ingresso, poi li fece entrare in casa. Gli addobbi di Natale erano ancora appesi, in attesa della notte dell'Epifania, e il profumo di aghi di pino inaspriva l'aria.

"Prima che tu lo veda, Gentle," disse Clem, "devo dirti che gli hanno dato moltissime medicine, perciò va e viene. Ma voleva vederti a tutti i costi."

"Ha detto perché?" chiese Gentle.

"Non ha bisogno di una ragione," disse piano Clem. "Tu rimani, Judy? Se vuoi vederlo dopo Gentle..."

"Mi piacerebbe."

Mentre Clem accompagnava Gentle nella camera, Jude andò in cucina a farsi una tazza di tè, rimproverandosi per non aver rivelato a Gentle quel che Taylor le aveva detto di lui la settimana precedente; in modo particolare la storia di quando s'era messo a parlare altre lingue. Avrebbe potuto dare a Gentle un'idea di quello che Taylor voleva sapere da lui ora. La soluzione di quel mistero era stata al centro dei pensieri di Taylor la notte di Natale. Forse ora, drogato o no, sperava di ottenere un po' di sollievo dalla sua confusione. Judith dubitava che Gentle fosse in grado di dare una risposta. Lo sguardo che aveva visto riflettersi nello specchio del bagno era quello di un uomo per il quale anche la propria immagine era un mistero.

 

Le stanze da letto erano così calde solo per le malattie o per l'amore, pensò Gentle mentre Clem lo faceva entrare; trasudavano ossessione o contagio. Naturalmente non funzionava sempre, in entrambi i casi, ma almeno nell'amore il fallimento dava le sue soddisfazioni.

Dopo quello che era successo a Streatham Gentle aveva mangiato molto poco, e l'aria viziata gli fece venire il capogiro. Dovette scrutare la stanza per due volte prima che i suoi occhi mettessero a fuoco il letto nel quale giaceva Taylor, accuratamente accerchiato dagli assistenti senz'anima della morte moderna: una bombola di ossigeno con i suoi tubi e la maschera; una tavolo carico di indumenti e asciugamani; un altro, cori una scodella per il vomito, una padella e ancora asciugamani, e accanto un terzo, con medicine e unguenti. In mezzo a quella panoplia c'era il magnete che li aveva attirati lì e che ora appariva loro prigioniero. Taylor era appoggiato a cuscini coperti di plastica, con gli occhi chiusi. Sembrava un vecchio. Aveva i capelli sottili, la faccia ancor più sottile, la vita interna del suo corpo - ossa, nervi e vene - dolorosamente visibile attraverso una pelle del colore del lenzuolo.

Tutto ciò che Gentle poté fare fu non girarsi e fuggire prima che gli occhi dell'uomo si aprissero. La morte si presentava ancora una volta davanti ai suoi occhi.

Un calore diverso questa volta, e una scena diversa, ma Gentle venne assalito dallo stesso miscuglio di paura e inettitudine che aveva provato a Streatham. Rimase appoggiato alla porta, lasciando che Clem si avvicinasse per primo al letto e svegliasse con dolcezza il dormiente. Taylor si mosse, e il suo sguardo rivelò ira finché non vide Gentle. La rabbia di essere risvegliato al dolore si allontanò dalla sua fronte, e disse: "Lo hai trovato."

"Non sono stato io, è stata Judy," spiegò Clem.

"Oh, Judy. È fantastica," disse Taylor. Cercò di riappoggiarsi al cuscino, ma era uno sforzo troppo grande per lui. Il suo respiro divenne immediatamente faticoso, e lui fece una smorfia per il dolore che il movimento gli causava.

"Vuoi un antidolorifico?" gli chiese Clem.

"No, grazie," rispose Taylor. "Voglio essere lucido, in modo che Gentle e io possiamo parlare." Guardò verso il suo visitatore, che era ancora sulla porta. "Vuoi parlare un po' con me, John?" chiese. "Noi due soli?"

"Ma certo," rispose Gentle.

Clem si allontanò dal fianco del letto e fece cenno a Gentle di avvicinarsi. C'era una sedia, ma Taylor diede dei colpetti leggeri sul letto, e fu lì che Gentle si sedette, udendo mentre lo faceva il rumore della plastica sotto le lenzuola.

"Chiamate, se avete bisogno di qualcosa," disse Clem, parlando più a Gentle che a Taylor. Poi li lasciò soli.

"Mi verseresti un bicchier d'acqua?" chiese Taylor.

Gentle lo fece, e porgendo il bicchiere a Taylor si rese conto che all'uomo mancava la forza di reggerlo. Glielo posò allora sulle labbra. Erano coperte da una pomata che le idratava leggermente, ma erano comunque spaccate, e gonfie di piaghe. Dopo qualche sorso Taylor mormorò qualcosa.

"Basta?" chiese Gentle.

"Si, grazie," rispose Taylor. Gentle posò il bicchiere. "Ne ho avuto abbastanza di tutto. Era ora che tutto finisse."

"Ritornerai in forze."

"Non ho voluto vederti perché ce ne stessimo qui a mentirci l'un l'altro," disse Taylor. "Ti ho voluto qui per poterti dire quanto ho pensato a te. Giorno e notte, Gentle."

"Sono sicuro di non meritarlo."

"Il mio inconscio pensa di sì," replicò Taylor. "E, dato che ora abbiamo deciso di essere onesti, anche il resto di me la pensa così. Mi sembra che tu non dorma abbastanza, Gentle."

"Ho lavorato, tutto qui."

"Hai dipinto?"

"Anche. Cercavo l'ispirazione, sai."

"Devo farti una confessione," disse Taylor. "Ma prima, devi promettermi che non ti arrabbierai con me."

"Che cosa c'è?"

"Ho detto a Judy di quella notte che siamo stati insieme," rispose Taylor. Fissò Gentle aspettandosi qualche reazione. Dato che non ve ne furono continuò. "So che per te non è stata una cosa importante," disse. "Ma io ci ho pensato molto. Non ti dispiace?"

Gentle alzò le spalle. "Sono sicuro che non è stata una grande sorpresa per lei."

Taylor girò la mano su lenzuolo, con il palmo verso l'alto, e Gentle la prese. Non c'era forza nelle dita di Taylor, ma egli le chiuse sulla mano di Gentle con quella poca che gli restava. La sua stretta era fredda.

"Stai tremando," osservò Taylor.

"È da un po' che non mangio," disse Gentle.

"Dovresti cercare di mantenerti in forze. Sei un uomo molto occupato."

"A volte ho bisogno di fluttuare un po'," replicò Gentle.

Taylor sorrise, e sul suo viso sciupato apparve un'ombra della bellezza che aveva posseduto. "Oh sì," disse. "Anch'io fluttuo tutto il tempo. Sono stato dappertutto in questa stanza. Sono stato fuori dalla finestra, a guardare me stesso. E così che sarà quando me ne sarò andato, Gentle. Me ne andrò via fluttuando, solo che questa volta non tornerò. So che mancherò a Clem - abbiamo vissuto insieme una mezza vita - ma tu e Judy sarete gentili con lui, non è vero? Fategli capire come stanno le cose, se potete. Ditegli che me ne sono andato fluttuando. Lui non vuole sentirmi parlare così, ma tu capisci."

"Non ne sono sicuro."

"Tu sei un artista," disse.

"Sono un falsario."

"Non nei miei sogni, no davvero. Nei miei sogni vuoi guarirmi, e sai cosa rispondo io? Ti dico che io non voglio guarire. Dico che voglio uscire alla luce."

"Mi sembra un bel posto dove stare," disse Gentle. "Forse ti raggiungerò presto."

"Le cose vanno tanto male? Dimmelo. Voglio saperlo."

"Tay, tutta la mia vita è fottuta."

"Non dovresti essere così duro con te stesso. Sei una brava persona."

"Hai detto che non avremmo mentito."

"Ma questa non è una bugia. Sei davvero una brava persona. Hai solo bisogno di qualcuno che te lo ricordi di tanto in tanto. Ne abbiamo tutti bisogno. Altrimenti torniamo nel fango, capisci?"

Gentle strinse la mano di Taylor. C'erano così tante cose in lui che non aveva né la forza né la capacità di esprimere. C'era Taylor che gli apriva il cuore su amore e sogni e su come sarebbe stato una volta morto, e cosa aveva lui, Gentle, da dare in cambio? Al massimo, confusione e oblio. Si trovò a pensare chi di loro due fosse il più malato: Taylor, che era fragile ma in grado di parlare con la voce del cuore? O lui stesso, sano ma silenzioso? Deciso a non separarsi da quell'uomo senza aver tentato di condividere con lui qualcosa di ciò che era successo, tentò di trovare delle parole per spiegarsi.

"Credo di aver trovato qualcuno," disse. "Qualcuno che può aiutarmi... a ricordare me stesso."

"È un bene."

"Non ne sono sicuro," disse Gentle con voce sottilissima. "Nelle ultime settimane ho visto certe cose, Tay... cose cui non volevo credere fino a quando non ho avuto più scelta. A volte penso che sto impazzendo."

"Raccontami..."

"Qualcuno a New York ha tentato di uccidere Jude."

"Lo so. Me lo ha raccontato. Cosa sai di lui?" I suoi occhi si spalancarono. "È lui quel qualcuno?" chiese.

"Non è un lui."

"Mi pare che Judy abbia detto che era un uomo."

"Non è un uomo," disse Gentle. "Non è nemmeno una donna. Non è nemmeno umano, Tay."

"Cos'è allora?"

"E magnifico," disse Gentle. Non aveva osato utilizzare una parola come questa, nemmeno con se stesso. Ma qualsiasi altra cosa sarebbe stata una bugia, e lì le bugie non erano bene accolte. "Ti ho detto che mi è parso di impazzire. Ma ti giuro, se tu avessi visto il modo in cui cambiava... era diverso da qualsiasi altra cosa io abbia mai visto."

"E ora dov'è?"

"Credo sia morto," rispose Gentle. "Ho sprecato troppo tempo a cercarlo. Ho tentato di dimenticare di averlo mai visto. E poi, non riuscendovi, ho tentato di dipingerlo come per liberarmene. Ma neanche questo ha funzionato. È naturale: non poteva funzionare. Era già diventato parte di me. E quando finalmente sono andato a cercarlo... era troppo tardi."

"Sei sicuro?" disse Taylor. Mentre Gentle parlava, sul viso di Taylor erano apparsi i segni di uno struggimento doloroso, e stavano aumentando.

"Stai bene?"

"Sì, sì," rispose. "Voglio sentire il resto."

"Non c'è nient'altro da sentire. Forse Pie è la fuori da qualche parte, ma non so dove."

"È per questo che vuoi fluttuare? Stai sperando..." tacque, con il respiro che improvvisamente si era trasformato in un ansito. "Sai, forse dovresti andare a chiamare Clem," disse.

"Certamente."

Gentle si diresse verso la porta, ma prima che l'avesse raggiunta Taylor disse ancora: "Devi capire Gentle. Quale che sia il mistero, devi scoprirlo per tutti e due."

Con la mano sulla porta e un ottimo pretesto per una ritirata precipitosa, Gentle sapeva di poter tacere anziché rispondere; poteva andarsene anziché impegnarsi nella ricerca. Ma, se avesse risposto, sarebbe rimasto legato.

"Capirò," disse, incontrando lo sguardo disperato di Taylor. "Lo faremo entrambi. Lo giuro."

Taylor riuscì a sorridere in risposta, ma era un sorriso fugace. Gentle aprì la porta e uscì sul pianerottolo. Clem stava aspettando.

"Ha bisogno di te," disse Gentle.

Clem entrò e chiuse la porta della camera. Sentendosi improvvisamente esiliato, Gentle si diresse al piano di sotto. Jude era seduta al tavolo della cucina, e giocherellava con un pezzo di pietra.

"Come sta?" gli chiese subito.

"Non bene," rispose Gentle. "Clem è entrato a prendersi cura di lui."

"Vuoi del tè?"

"No grazie. Quello di cui ho bisogno è aria fresca. Credo che farò un giro dell'isolato."

Quando uscì cadeva una pioggia finissima, benedetta dopo il calore soffocante della stanza. Gentle non conosceva bene la zona, perciò decise di rimanere vicino alla casa, ma la distrazione ebbe ben presto il sopravvento sulle sue intenzioni, e prese a passeggiare senza meta, perso nei suoi pensieri e nel labirinto delle strade. C'era nel vento una freschezza che lo fece rammaricare per la sua fuga. Quello non era il luogo per risolvere misteri. Con il nuovo anno tutti si sarebbero gettati in una nuova tornata di propositi e ambizioni, progettando il loro futuro come una farsa ben collaudata. Lui non ne voleva sapere niente.

Quando prese la via del ritorno, si ricordò che Jude gli aveva chiesto di prendere latte e sigarette. Tornò sui suoi passi, alla ricerca di entrambi, cosa per cui impiegò più tempo di quanto avesse pensato. Quando svoltò finalmente l'angolo, con gli acquisti in mano, davanti alla casa di Taylor c'era un'ambulanza. La porta d'ingresso era aperta. Jude era sugli scalini, e osservava la pioviggine. Aveva le lacrime sul viso.

"È morto," disse.

Gentle rimase fermo, immobilizzato a un metro da lei. "Quando?" chiese, come se avesse importanza.

"Appena te ne sei andato."

Non voleva piangere; non con lei che guardava. C'erano troppe altre cose che non voleva più fare in sua presenza. Impietrito disse:

"Dov'è Clem?"

"Di sopra con lui. Non salire. Ci sono già troppe persone."

Judith gli vide le sigarette in mano, e allungò la propria verso il pacchetto. Quando le loro dita si sfiorarono, il dolore corse tra di esse. Nonostante le sue intenzioni, le lacrime salirono agli occhi di Gentle che si rifugiò nell'abbraccio di lei, ed entrambi piansero liberamente, come nemici uniti da una perdita comune, o come amanti sul punto di separarsi. O ancora come anime che non riescano a ricordare se sono amanti o nemiche, e piangono per la loro confusione.

 

16

 

I

 

Dopo la riunione durante la quale era stato sollevato l'argomento della biblioteca della Tabula Rasa, Bloxham aveva progettato più volte di adempiere il compito per il quale si era offerto volontario, cioè di penetrare nei meandri della torre per controllare le condizioni della raccolta. Ma aveva rinviato due volte, dicendosi che c'erano cose più urgenti di cui occuparsi, e cioè la messa a punto della Grande Purificazione della Società. E avrebbe rinviato la missione una terza volta, se l'argomento non fosse stato sollevato nuovamente in modo distratto da Charlotte Feaver, che s'era infervorata quanto lui per la sicurezza di quei libri durante quella prima riunione e che ora si offrì di accompagnarlo nell'ispezione. Le donne stupivano Bloxham, e l'attrazione che esercitavano su di lui era sempre andata di pari passo con il disagio che egli provava in loro compagnia. Ma negli ultimi giorni Bloxham aveva provato un desiderio sessuale di un'intensità raramente, se non mai, avvertita prima. Nemmeno nel segreto delle sue preghiere osava confessarne il motivo. La Purificazione lo eccitava - gli faceva ribollire il sangue e accresceva la sua virilità - ed egli non aveva dubbi che Charlotte avrebbe risposto a quell'ardore, sebbene lui non glielo avesse mai mostrato esternamente. Bloxham accettò all'istante l'offerta di lei, come anche il suo suggerimento di incontrarsi alla Torre l'ultima sera dell'anno. Portò una bottiglia di champagne.

"Tanto vale che ci divertiamo," disse, mentre scendevano attraverso i resti della casa originale di Roxborough, un piano che era stato conservato e nascosto dietro le pareti della Torre.

Nessuno di loro scendeva nei sotterranei da molti anni. Erano più primitivi di quanto entrambi ricordassero. La luce elettrica era stata installata alla bell'e meglio - cavi dai quali penzolavano lampadine lungo i passaggi - ma a parte questo il posto era come era stato durante i primi anni della Tabula Rasa. Gli scantinati erano stati costruiti allo scopo specifico di alloggiare la collezione della Società, ed erano stati progettati in grandi dimensioni. Una serie di corridoi identici si irraggiava dalle scale inferiori, con scaffali allineati su entrambi i lati che raggiungevano, lungo i muri di mattone, la curva dei soffitti. Le intersezioni di quei soffitti formavano volte elaborate, ma a parte questo non c'erano altre decorazioni.

"Apriamo la bottiglia prima di cominciare?" suggerì Bloxham.

"Perché no? Con cosa beviamo?"

Per tutta risposta lui estrasse due calici dalla tasca. Lei li prese, mentre Bloxham apriva la bottiglia, e il tappo venne via con poco più di un sospiro decoroso, il cui suono si diffuse per il labirinto, ma senza tornare più indietro. Riempiti i bicchieri, i due brindarono alla Purificazione.

"Ora che siamo qui," disse Charlotte, stringendosi sul corpo le pellicce che indossava, "che cosa dobbiamo cercare?"

"Qualsiasi traccia di scasso o furto," rispose Bloxham. "Ci separiamo o andiamo insieme?"

"Oh, insieme," rispose lei.

Roxborough aveva affermato che quegli scaffali contenevano ogni singolo volume di qualsiasi rilevanza nell'emisfero, e mentre i due giravano insieme, scrutando le decine di migliaia di manoscritti e libri, pensarono che quella vanteria doveva essere fondata.

"Come diavolo pensi che abbiano fatto a raccogliere questa roba?" si chiese Charlotte mentre camminavano.

"Oserei dire che allora il mondo era più piccolo," osservò Bloxham. "Si conoscevano tutti, o no? Casanova, Sartori, il Conte di Saint-Germain. Tutti farabutti e farabutti insieme."

"Farabutti? Lo credi davvero?"

"La maggior parte di loro," disse Bloxham, crogiolandosi nel suo immeritato ruolo di esperto. "Possono essercene stati uno o due, immagino, che sapevano cosa stavano facendo."

"Sei mai stato tentato?" gli chiese Charlotte, infilando il braccio sotto il suo mentre andavano.

"Di fare cosa?"

"Di vedere se tutto questo ha senso. Di cercare di risvegliare un familiare o entrare nei Domini."

Lui la guardò con genuino stupore.

"Questo è contro tutte le regole della Società," disse.

"Non è questo che ti ho chiesto," replicò lei, quasi seccamente, "Ho detto: sei mai stato tentato?"

"Mio padre mi ha insegnato che qualsiasi contatto con l'Imagica avrebbe messo in pericolo la mia anima."

"Il mio ha detto la stessa cosa. Ma credo che alla fine rimpiangesse di non averci provato. Voglio dire, se queste storie non sono vere, allora non c'è niente di male."

"Oh, io credo che queste storie siano vere," disse Bloxham.

"Tu credi che ci siano altri Domini?"

"Hai visto quella dannata creatura che Godolphin ha sventrato davanti a noi."

"Ho visto un esemplare di una specie che non avevo visto prima, questo è tutto." Charlotte si fermò e prese un libro a caso dallo scaffale. "Ma a volte mi chiedo se la fortezza a cui facciamo la guardia non sia vuota." Aprì il libro, e ne cadde una ciocca di capelli. "Forse è tutta invenzione," disse lei. "Sogni stupefacenti e immaginazione." Rimise il libro sullo scaffale e si girò verso Bloxham. "Mi hai davvero invitato qui per controllare le condizioni della sicurezza?" mormorò. "Se è così, sarò molto delusa."

"Non completamente," disse lui.

"Bene," replicò lei, e continuò a camminare addentrandosi nel labirinto.

 

II

 

Sebbene Jude fosse stata invitata a diverse feste di Capodanno, non aveva preso alcun impegno, cosa di cui, dopo i dolori che la giornata aveva portato, era contenta. Si era offerta di rimanere con Clem dopo che il corpo di Taylor era stato portato via, ma lui aveva declinato, dicendo che aveva bisogno di stare solo. Lo confortava comunque sapere che se avesse avuto bisogno di lei, sarebbe stata all'altro capo del telefono, e le disse che l'avrebbe chiamata se fosse diventato troppo piagnucoloso.

Una delle feste alle quali era stata invitata era in una casa di fronte al suo appartamento, e a giudicare da com'era stata l'anno precedente, avrebbe provocato un certo fracasso. Aveva festeggiato lì il Capodanno per molti anni di seguito, ma stasera stare da sola non era un grande sacrificio. Non era dell'umore di confidare nel futuro, se ciò che l'Anno Nuovo stava per offrirle era come ciò che le aveva offerto quello passato. Chiuse le tende nella speranza che la sua presenza sarebbe passata inosservata, accese alcune candele, mise su un concerto di flauti, e iniziò a prepararsi una cena leggera. Mentre si lavava le mani, scoprì che le sue dita e i palmi delle mani avevano preso una leggera patina di colore dalla pietra. Durante il pomeriggio si era più volte scoperta a giocherellarci, mettendola in tasca per scoprire pochi minuti dopo che l'aveva di nuovo tra le mani. Non capiva come non si fosse accorta fino a quel momento del colore che le aveva lasciato sui palmi. Strofinò velocemente le mani sotto l'acqua del lavandino per lavare via la polvere, ma quando le asciugò scoprì che il colore era diventato più acceso. Andò in bagno per studiare il fenomeno sotto una luce più intensa. Non era, come aveva pensato inizialmente, polvere. Il pigmento pareva essere penetrato nella sua pelle, come una macchia di henne. Né era limitato alle mani. Si era diffuso ai polsi, dove la sua pelle - ne era sicura - non era entrata in contatto con la pietra. Si tolse la camicetta, e fu uno choc scoprire che c'erano macchie irregolari di colore anche sui gomiti. Iniziò a parlare da sola, cosa che faceva sempre quando era confusa per qualche motivo.

"Cosa diavolo è questo? Sto diventando blu? Ma è ridicolo."

Forse era ridicolo, ma niente affatto divertente. Cominciò a sentire nello stomaco un principio di nausea o di panico. La pietra le aveva trasmesso qualche malattia? Era per questo che Estabrook l'aveva impacchettata con tanta cura e nascosta?

Si girò verso la doccia e si spogliò. Non riuscì a trovare nel suo corpo altre macchie, e ciò le diede un minimo di conforto. Entrò sotto il getto di acqua bollente, prese la schiuma di sapone e iniziò a strofinare il colore. L'acqua calda e il senso di nausea allo stomaco le diedero il capogiro, e a un certo punto ebbe paura di svenire e dovette uscire dalla doccia, cercando di aprire la porta del bagno per fare entrare dell'aria più fresca. La sua mano viscida scivolò però sulla maniglia, e Judith si voltò imprecando, cercando un asciugamano per togliersi di dosso il sapone. In quel momento si vide nello specchio. Il suo collo era blu. La pelle intorno agli occhi era blu. La sua fronte era blu fino all'attaccatura dei capelli. Si allontanò da quello spettacolo grottesco, appiattendosi contro le piastrelle inumidite dal vapore.

"Sto sognando," disse ad alta voce.

Allungò una seconda volta la mano verso la maniglia, e vi si afferrò con forza sufficiente ad aprire la porta. Il freddo le fece venire la pelle d'oca dalla testa ai piedi, ma era contenta di quei brividi. Forse l'avrebbero strappata a quell'inganno dei sensi. Tremando dal freddo Judith fuggì dal proprio riflesso, dirigendosi direttamente verso la sicurezza del soggiorno illuminato dalle candele. Al centro del tavolino da caffè giaceva il pezzo di pietra azzurra, il cui occhio la fissava. Non ricordava di averla tirata fuori di tasca, e ancor meno di averla messa sul tavolo in quella posizione così particolare, circondata da candele. La comparsa della pietra fece correre nuovamente Judith verso la porta. Cadde improvvisamente preda della superstizione, come se quell'occhio avesse i poteri del basilisco, e potesse trasformarla in qualcosa di simile alla pietra. Se quello era il suo potere, era troppo tardi per disattivarlo. Ogni volta che aveva girato la pietra aveva incontrato il suo sguardo. Resa audace dal fatalismo, andò al tavolo, raccolse la pietra e, senza darle il tempo di reimpossessarsi di lei, la scagliò contro il muro con tutta la forza che aveva in corpo.

Mentre volava via dalla sua mano, la pietra le offrì l'opportunità di comprendere il proprio errore. In sua assenza essa aveva preso possesso della stanza; era divenuta più reale della mano che l'aveva scagliata, o del muro che stava per colpire. Il tempo era il suo giocattolo, il luogo il suo balocco, e cercando di distruggere la pietra lei avrebbe dissolto entrambi.

Ormai era troppo tardi per rimediare all'errore. La pietra colpì il muro con un forte suono, e in quel momento Judith venne gettata fuori da se stessa, come se qualcuno avesse allungato una mano verso la sua testa, afferrandole la coscienza e gettandola fuori dalla finestra. Il corpo di Judith rimase nella stanza che aveva abbandonato, del tutto inutile al viaggio che colei che lo possedeva stava per fare. Tutto quello che le era rimasto dei suoi sensi era la vista. Era sufficiente. Fluttuò sopra la strada tetra che brillava umida alla luce dei lampioni, verso gli scalini della casa davanti alla sua. Un quartetto di invitati alla festa - tre giovani uomini con una ragazza brilla in mezzo - stavano aspettando, e uno dei tre bussava impazientemente alla porta. Nell'attesa, il più tarchiato dei tre baciava la ragazza, e intanto le palpava di nascosto il seno. Jude vide il disagio che traspariva dalle risatine della ragazza; vide le sue mani formare degli inutili piccoli pugni quando il corteggiatore spinse la lingua contro le sue labbra, poi la vide schiudere la bocca, più per rassegnazione che per desiderio. Quando la porta si aprì e i quattro entrarono nel frastuono della festa, lei si allontanò, alzandosi sopra i tetti delle case mentre volava, e scendendo nuovamente per vedere gli atti di altri drammi che si svolgevano nelle case vicino alle quali passava.

Erano tutti frammenti, come la pietra che l'aveva inviata in quella missione; parti di drammi che lei poteva solo immaginare. Una donna in una stanza fissava un vestito che giaceva su un letto spoglio; un'altra, alla finestra, con le lacrime che scendevano da dietro le palpebre chiuse, si muoveva al suono di una musica che Jude non era in grado di sentire; un'altra ancora si alzava da una tavolata di ospiti tutti azzimati, nauseata da qualcosa. Non conosceva nessuna di quelle donne, ma le erano tutte familiari. Anche nel breve arco di vita di cui si ricordava, c'erano stati momenti in cui si era sentita come tutte loro: abbandonata, impotente, smaniosa. Iniziò a intuire uno scopo. Stava muovendosi da uno sguardo all'altro, come verso momenti della sua vita, incontrando il proprio riflesso in donne di ogni tipo e classe.

In una strada buia dietro King's Cross vide una donna che faceva un servizietto a un uomo nel sedile anteriore della sua macchina, piegata per prendere il suo membro rosa e duro tra le labbra color mestruo. Lo aveva fatto anche lei, o comunque qualcosa di simile, perché voleva essere amata. E la donna che le passava vicino guidando, che guardava le puttane in bella mostra e ne era nauseata: quella era lei. E la bella che rimproverava il proprio amante sotto la pioggia, e la megera che applaudiva ubriaca dall'alto; lei era stata in queste vite, sicuramente, o loro nella sua.

Il viaggio stava per terminare. Aveva raggiunto un ponte dal quale avrebbe avuto una vista panoramica della città, ma la pioggia in quella zona era più forte di quanto lo fosse a Notting Hill, e la visuale era coperta. La sua mente non indugiò, ma passò attraverso la pioggia - senza bagnarsi o prender freddo - diretta verso una torre priva di luce che si trovava nascosta dietro a una fila di alberi. La sua velocità era diminuita, ed ella ondeggiò tra le foglie come un uccello ubriaco, cadendo al suolo, e penetrandovi per immergersi in un'umida e totale oscurità.

Per un momento fu terrorizzata all'idea di finire sepolta viva in quel posto, poi l'oscurità lasciò il posto alla luce, e Judith si trovò a cadere attraverso il soffitto di una cantina con i muri pieni di scaffali di libri anziché di bottiglie di vino. Lungo i passaggi pendevano delle lampadine, ma lì l'aria era ancora densa, non di polvere ma di qualcosa che lei comprendeva solo vagamente. Lì c'era santità, c'era potenza. Non aveva mai provato qualcosa del genere prima; né in San Pietro, o a Chartres, o nel Duomo di Milano. Quella sensazione le fece desiderare di essere nuovamente di carne anziché soltanto una mente vagante. Lì avrebbe voluto camminare. Toccare i libri, i mattoni; annusare l'aria. Sarebbe stata polverosa, ma di che polvere! Ogni atomo di pulviscolo sarebbe stato saggio come un pianeta per aver galleggiato in questo luogo sacro.

Il movimento di un'ombra destò la sua attenzione, e Judith si mosse verso di essa lungo il passaggio, chiedendosi mentre camminava che volumi fossero mai quelli, accatastati su ogni lato. L'ombra davanti a lei, che aveva creduto appartenere a una sola persona, apparteneva invece a due individui, avvinghiati in un abbraccio erotico. La donna aveva la schiena sui libri, le braccia aggrappate allo scaffale sopra la sua testa. Il suo compagno, con i pantaloni alle caviglie, era schiacciato contro di lei, ed emetteva corti sospiri che accompagnavano il movimento dei suoi fianchi. Entrambi avevano gli occhi chiusi: la vista che potevano darsi reciprocamente non doveva essere un grande afrodisiaco. Era questo accoppiamento che era venuta a vedere? Dio sapeva se c'era qualcosa della loro attività che la eccitasse o le insegnasse qualcosa. Sicuramente l'occhio blu non l'aveva portata dall'altra parte della città facendole attraversare tante storie di donne solo per assistere a quel rapporto privo di gioia. Doveva esserci qualcos'altro qui che lei non riusciva a capire. Qualcosa che si celava nel loro amplesso? Ma no. Erano solo sospiri. Nei libri che ballavano sugli scaffali dietro di loro? Forse.

Judith si lasciò trasportare più vicino per esaminarne i tìtoli, ma il suo sguardo andò oltre il dorso dei libri, verso il muro contro cui poggiavano i due. Lungo i passaggi i mattoni erano tutti uguali. Ma la malta tra di loro aveva una tonalità che riconobbe comunque: un azzurro inconfondibile. Eccitata, spinse la sua mente in avanti, oltre gli amanti e i libri, e attraverso i mattoni. Dall'altra parte era buio, ancora più buio del terreno che aveva attraversato per entrare in quel luogo segreto. E non era un'oscurità provocata semplicemente dalla mancanza di luce, ma dalla disperazione e dal dolore. Il suo primo istinto fu di ritrarsi da essa, ma là c'era un'altra presenza che la fece indugiare; una forma vagamente distinguibile nell'oscurità, stesa per terra in quella squallida cella. Era fasciata - quasi avvolta in un bozzolo - con la faccia completamente coperta. La fasciatura era sottile come filo, ed era stata avvolta intorno al corpo con cura ossessiva, ma le sue forme erano sufficientemente visibili da dare a Jude la certezza che anche lei, come tutti gli spiriti intrappolati durante tutte le tappe del suo viaggio, fosse una donna.

I suoi carnefici erano stati molto meticolosi e non avevano lasciato nemmeno un capello o un'unghia visibili. Jude si accovacciò vicino al corpo studiandolo. Loro due erano quasi complementari: come il corpo e lo spirito, eternamente divisi; tranne che lei aveva un corpo in cui tornare. Almeno si augurava di averlo; si augurava che ora che aveva completato quel bizzarro pellegrinaggio e aveva visto quei resti oltre il muro, le sarebbe stato permesso di tornare nella sua pelle macchiata. Ma qualcosa continuava a trattenerla in quel luogo: non l'oscurità, non i muri, ma la sensazione di qualcosa lasciato in sospeso. Era un segno di venerazione che le veniva richiesto? Se sì, quale? Non aveva mani da congiungere in un atto di preghiera, né labbra per recitare un osanna; non poteva inginocchiarsi, non poteva toccare quella spoglia mortale. Cosa le rimaneva da fare? A meno che (Dio non voglia) non dovesse entrare in quella creatura.

Nel momento stesso in cui formulò il pensiero comprese che era proprio quello il motivo per cui era stata portata lì. Lei aveva lasciato la sua carne viva per entrare in quella, prigioniera di mattoni, fasce e decomposizione, una carcassa avvolta in tre strati dalla quale lei avrebbe potuto non uscire mai più. Il pensiero le ripugnava, ma non era andata fin lì per tornarsene indietro solo perché quell'ultimo rito la angosciava troppo. Anche se avesse potuto vincere le forze che l'avevano portata lì e tornare alla casa del suo corpo, non si sarebbe poi chiesta per il resto della vita a quale avventura aveva voltato le spalle? Non era una codarda; sarebbe entrata in quei resti e ne avrebbe affrontato le conseguenze.

Detto fatto. La sua mente scese verso la fasciatura, e penetrò tra i fili nel dedalo del corpo. Si era aspettata oscurità, ma trovò luce, le forme degli organi interni del corpo delineati da un azzurro latteo che aveva ormai imparato a distinguere come il colore del mistero. Non c'era sporcizia, né corruzione. Era più una cattedrale che un ossario: la fonte, iniziò a sospettare, della sacralità che permeava di sé quello scantinato. Ma, come in una cattedrale, la sua sostanza era morta. In quelle vene non scorreva sangue, non c'era un cuore che pulsasse, non polmoni che aspirassero aria. Judith entrò in lei, per valutarne lunghezza e ampiezza. La donna morta era stata robusta da viva, con i fianchi larghi, il seno pesante. Ma la fasciatura penetrava dappertutto nella sua abbondanza, alterandone protuberanze e curve. Che terribili ultimi momenti doveva aver vissuto, giacendo cieca in quella sporcizia, ascoltando le mura del suo mausoleo che venivano costruite mattone su mattone. Di quale crimine si era mai macchiata, si chiese Jude, per essere stata condannata a una morte simile? E chi erano i suoi boia, coloro che avevano costruito quel muro? Avevano cantato mentre lavoravano, e le loro voci erano diventate sempre più flebili mentre i mattoni le cancellavano a poco a poco? O erano rimasti in silenzio, vergognandosi per la propria crudeltà?

C'erano così tante cose che avrebbe voluto sapere, e nessuna di esse poteva avere una risposta. Aveva finito il suo viaggio come lo aveva cominciato, nella paura e nella confusione. Era ora di allontanarsi da quelle spoglie, e di tornare a casa. Si sforzò di abbandonare il corpo azzurro e morto. Si accorse con orrore che non succedeva niente. Era come legata lì, prigioniera dentro una prigioniera. Per Dio, che cosa aveva fatto? Ripetendosi che non doveva lasciarsi prendere dal panico, si concentrò sul problema, immaginando la cella oltre le fasciature, il muro attraverso il quale era passata senza alcuno sforzo, gli amanti, e il passaggio che portava fuori, all'aria aperta. Ma immaginare non bastava. Si era lasciata prendere dalla curiosità, diffondendo il suo spirito nel cadavere, che ora lo esigeva per se stesso.

In Judith iniziò a crescere la rabbia, e lei non cercò di reprimerla. Era parte di lei, quanto il naso sul suo viso, e Jude aveva bisogno di tutto quello che era, di ogni particolare, per darsi forza. Se avesse avuto il proprio corpo attorno a sé, esso si sarebbe arrossato, e il battito del suo cuore si sarebbe adeguato al ritmo di quella sua rabbia. Le pareva persino di sentire - era il primo suono di cui si rendeva conto da quando aveva lasciato la casa - la pompa intenta al suo lavoro frenetico. Non era la sua immaginazione. La sentiva nel corpo attorno a sé, un tremore che passava nell'organismo messo a tacere ormai da tanto tempo, mentre la sua rabbia lo accendeva di nuovo. Nella sala del trono della sua testa, una mente addormentata si svegliò e seppe di essere posseduta.

Per Jude fu un momento squisito di consapevolezza quello in cui una mente per lei nuova - ma dolcemente familiare - sfiorò la sua. Poi la sentì gridare d'orrore dietro a lei, un suono più mentale che gutturale, che la seguì mentre lei usciva dalla cella, fuori attraverso il muro, accanto agli amanti interrotti nel loro amplesso da fiocchi di polvere, nella pioggia, e in una notte non blu ma del nero più nero. L'urlo di terrore della donna la accompagnò per tutto il percorso fino a casa, dove, con suo infinito sollievo, Judith trovò il proprio corpo ancora in piedi nella stanza illuminata dalle candele. Vi rientrò con facilità, e rimase ferma, ritta in mezzo alla stanza per un minuto o due, singhiozzando, fino a che iniziò a tremare dal freddo. Trovò il suo accappatoio e, mentre lo indossava, si accorse che i suoi polsi e i gomiti non erano più macchiati. Andò in bagno e si guardò allo specchio. Anche il suo viso era pulito.

Sempre tremando, tornò nel soggiorno per cercare la pietra blu. C'era un gran buco nel muro verso cui l'aveva scagliata e dove il suo impatto aveva strappato l'intonaco. La pietra non era danneggiata, e giaceva sul tappetino del focolare. Non la raccolse. Per quella notte ne aveva avuto abbastanza di deliri. Per sottrarsi all'occhio minaccioso meglio che poteva, vi gettò sopra un cuscino. L'indomani avrebbe pensato a un modo per sbarazzarsi della cosa. Quella notte aveva bisogno di raccontare a qualcuno quanto le era accaduto, prima di iniziare a dubitarne lei stessa. Qualcuno un po' pazzo, che non mettesse subito in ridicolo in suo racconto; qualcuno che le credesse già un po'. Gentle, naturalmente.

 

17

 

Verso mezzanotte il traffico fuori dallo studio di Gentle diminuì fino quasi a scomparire. Tutti coloro che quella sera andavano a una festa erano già arrivati a destinazione. Erano occupati a bere, a parlare o a sedurre, e festeggiavano decisi ad avere, nell'anno nuovo, quello che non avevano avuto nel vecchio. Soddisfatto nella propria solitudine, Gentle sedeva a gambe incrociate per terra, una bottiglia di bourbon tra le cosce, e le tele appoggiate ai mobili tutto intorno a lui. La maggior parte di quelle tele era vuota, ma ciò si confaceva alla sua meditazione. Anche il futuro era vuoto.

Era rimasto seduto in quel cerchio di solitudine per circa due ore, bevendo dalla bottiglia, e ora la sua vescica aveva bisogno di svuotarsi. Si alzò e andò in bagno, usando la luce del salotto pur di non doversi trovare davanti al suo riflesso. Mentre scrollava le ultime gocce nel water, la luce si spense. Tirò su la cerniera e tornò nello studio. La pioggia batteva sulla finestra, ma la luce della strada era sufficiente per vedere che la porta che dava sul pianerottolo era socchiusa.

"Chi c'è?"

Per un attimo tutto nella stanza rimase immobile, poi Gentle intravide una forma contro la finestra, e l'odore di qualcosa di bruciato e freddo gli penetrò le narici. Il fischiatore! Mio Dio, lo aveva trovato!

La paura lo spinse a fuggire. Si strappò alla propria rigidità e corse verso la porta. L'avrebbe attraversata e sarebbe stato già sulle scale, se non avesse quasi inciampato nel cane che aspettava obbediente dall'altra parte. Vedendolo l'animale scodinzolò dal piacere, e interruppe la sua fuga. Il fischiatore non era un amante dei cani. Allora chi c'era in casa? Voltandosi, Gentle allungò la mano verso l'interruttore della luce, e stava per premerlo quando la voce inconfondibile di Pie'oh'pah disse: "Ti prego, non farlo. Preferisco il buio."

Le dita di Gentle caddero dall'interruttore, mentre il cuore gli batteva all'impazzata, ora per un altro motivo.

"Pie? Sei tu?"

"Sì, sono io," fu la risposta. "Un amico mi ha detto che volevi vedermi."

"Credevo fossi morto."

"Ero con i morti. Theresa e i bambini."

"Oh Dio. Oh Dio."

"Anche tu hai perso qualcuno," disse Pie'oh'pah.

Era saggio, comprese ora Gentle, che quella conversazione si svolgesse al buio: parlare nell'ombra della tomba e delle vittime che aveva rivendicato.

"Ero con lo spirito dei miei bambini. Il tuo amico mi ha raggiunto nel luogo del lutto; mi ha parlato; ha detto che volevi vedermi ancora. Questo mi sorprende, Gentle."

"Almeno quanto mi sorprende la tua conversazione con Taylor," replicò Gentle, anche se non avrebbe dovuto farlo, dopo ciò che si erano detti. "E felice?" chiese, pur sapendo che la domanda poteva essere considerata una banalità, ma aveva un gran bisogno di essere rassicurato.

"Nessuno spirito è felice," rispose Pie. "Per loro non esiste liberazione. Non in questo Dominio né in un altro. Si accalcano alle porte, in attesa di andarsene, ma per loro non esiste un luogo dove andare."

"Perché?"

"Questa domanda è stata posta per molte generazioni, Gentle. Senza risposta. Quando ero bambino mi è stato insegnato che prima che l'Imperscrutato si trasferisse nel Primo Dominio lì c'era un luogo che accoglieva tutti gli spiriti. La mia gente viveva in quel Dominio allora, e lo sorvegliava, ma l'Imperscrutato ne scacciò sia gli spiriti sia la mia gente."

"Allora gli spiriti non hanno dove andare?"

"Proprio così. Il loro numero aumenta, e così anche il loro dolore."

Gentle pensò a Taylor sul suo letto di morte, mentre sognava la liberazione, l'ultimo volo nell'Assoluto. Invece, a dare retta a Pie, il suo spirito era entrato in un luogo di anime perdute alle quali venivano negate sia la carne sia la liberazione. A che pro allora darsi tanta pena per capire, se la fine di tutto era il limbo?

"Chi è questo Imperscrutato?" chiese Gentle.

"Hapexamendios, il Dio dell'Imagica."

"E anche un Dio di questo mondo?"

"Lo era una volta. Ma uscì dal Quinto Dominio, attraverso gli altri mondi, distruggendo le loro divinità, finché raggiunse il Luogo degli Spiriti. Poi tese un velo su quel Dominio..."

"E divenne Imperscrutato."

La perfezione formale e la semplicità del racconto di Pie'oh'pah conferirono autorevolezza alla storia, ma, pur in tutta la sua eleganza, essa rimaneva sempre una storia di Dei e di altri mondi, assai lontana da quella stanza buia e dalla pioggia fredda che cadeva sul vetro.

"Come faccio a sapere se è vero?"

"Non lo saprai, a meno che tu non lo veda con i tuoi occhi," rispose Pie'oh'pah. Quando lo disse la sua voce divenne quasi appassionata. Parlava come un seduttore.

"E come posso farlo?"

"Devi farmi domande dirette, e io cercherò di risponderti. Non posso rispondere a richieste generiche."

"Va bene, rispondi a questo: puoi portarmi nei Domini?"

"Quello posso farlo."

"Voglio seguire le tracce di Hapexamendios. Possiamo farlo?"

"Possiamo tentare."

"Voglio vedere l'Imperscrutato, Pie'oh'pah. Voglio sapere perché Taylor e i tuoi figli sono in Purgatorio. Voglio capire perché stanno soffrendo."

In questo discorso non c'erano domande, perciò non vi fu risposta, a parte il respiro più pesante dell'altro.

"Puoi portarmici ora?"

"Se è questo che vuoi."

"È questo che voglio, Pie. Prova che quello che hai detto è vero, o lasciami in pace per sempre."

 

Mancavano diciotto minuti a mezzanotte quando Jude salì in macchina per cominciare il viaggio fino alla casa di Gentle. Fu un percorso facile, con le strade così vuote, e diverse volte fu tentata di saltare i semafori rossi, ma la polizia era particolarmente vigile quella notte, e la minima infrazione poteva far uscire gli agenti dai loro nascondigli. Anche se non aveva alcool in corpo, non era affatto sicura di essere immune da influenze aliene. Guidò dunque cautamente come nell'ora di punta, e le ci vollero quindici minuti per raggiungere lo studio. Quando vi giunse trovò le finestre superiori buie. Si chiese se Gentle avesse deciso di annegare i dispiaceri in una notte sfrenata o se stava già dormendo profondamente. Se dormiva, aveva per lui delle notizie per cui valeva la pena di svegliarlo.

 

"Ci sono delle cose che dovresti capire prima che ci mettiamo in viaggio," disse Pie mentre legava il proprio polso sinistro a quello destro di Gentle usando la cintura. "Questo non è un viaggio facile, Gentle. Questo Dominio, il Quinto, non è riconciliato, e ciò significa che arrivare al Quarto comporta dei rischi. Non è come attraversare un ponte. Il passaggio richiede l'uso di un potere considerevole. E se una cosa qualunque va storta, le conseguenze saranno spaventose."

"Dimmi il peggio."

"Tra i Domini Riconciliati e il Quinto, c'è uno stato chiamato In Ovo. È un etere nel quale sono imprigionate le cose che hanno osato allontanarsi dai loro mondi. Alcune di loro sono innocenti. Sono lì accidentalmente. Altre sono state mandate lì per castigo divino. Sono letali. Mi auguro di passare per l'In Ovo prima che una qualunque di queste cose si accorga di noi. Ma se dovessimo separarci..."

"Credo di capire. Allora sarà meglio stringere il nodo. Potrebbe sciogliersi."

Pie si applicò a quell'operazione, mentre Gentle armeggiava nel buio per aiutarlo.

"Supponiamo di riuscire a passare l'In Ovo..." disse Gentle. "Cosa c'è dall'altra parte?"

"Il Quarto Dominio," rispose Pie. "Se le mie previsioni sono esatte, arriveremo nei pressi della città di Patashoqua."

"E se così non fosse?"

"Chi lo sa? Il mare. Una palude."

"Merda."

"Non ti preoccupare. Ho un buon senso dell'orientamento. E tra tutti e due abbiamo molto potere. Non potrei farlo da solo. Ma insieme..."

"Questo è l'unico modo per attraversare?"

"Niente affatto. Qui nel Quinto esistono diversi luoghi di passaggio: cerchi di pietra, nascosti. Ma la maggior parte di essi è stata creata per trasportare i viaggiatori in qualche località particolare. Noi andremo in giro liberamente. Senza farci vedere, insospettati."

"E perché hai scelto Patashoqua?"

"Per... un legame sentimentale," rispose Pie. "Lo vedrai da te, molto presto." Fece una pausa. "Vuoi ancora andare?"

"Certamente."

"Più stretto di così il nodo ci fermerebbe la circolazione."

"Allora cosa aspettiamo?"

Le dita di Pie toccarono il viso di Gentle. "Chiudi gli occhi," disse.

Gentle obbedì. Le dita di Pie cercarono la mano libera di Gentle e la sollevarono.

"Devi aiutarmi," disse.

"Dimmi cosa devo fare."

"Stringi il pugno. Leggermente. Lascia abbastanza spazio perché un soffio possa attraversarlo. Bene. Bene. Tutta la magia proviene dal respiro. Ricordalo."

Gentle lo ricordava, chissà come.

"Ora," continuò Pie, "portati la mano alla faccia, con il pollice contro il mento. Sai, sono pochi gli incantesimi. Non ci sono belle parole. Solo uno pneuma come questo, e la volontà che gli sta dietro."

"La volontà ce l'ho, se è questo che mi stai chiedendo," disse Gentle.

"Allora abbiamo bisogno solo di un respiro profondo. Espira fino a sentir male. Al resto ci penso io."

"Dopo, posso fare un altro respiro?"

"Non in questo Dominio."

A quella risposta, la consapevolezza dell'enormità di quello che stavano per fare colpì Gentle. Stavano lasciando la Terra. Stavano superando il confine dell'unica realtà che egli avesse mai conosciuto per entrare in uno stato completamente diverso. Gentle sorrise nel buio, mentre con la mano legata a quella di Pie afferrava le dita del suo liberatore.

"Andiamo?" disse questi.

Nell'oscurità davanti a lui i denti di Pie brillarono quando incontrarono il sorriso di Gentle.

"Perché no?"

Gentle prese fiato. Da qualche parte nella casa udì sbattere una porta, e dei passi sulle scale che portavano allo studio. Ma era troppo tardi per interrompersi. Espirò attraverso la propria mano, un respiro profondo che Pie'oh'pah parve carpire dall'aria tra di loro. Nel pugno che fece il mystif qualcosa si accese, abbastanza luminoso da bruciare tra le sue dita strette...

 

Sulla porta, il dipinto di Gentle comparve a Judith in carne ed ossa. Due figure, quasi naso contro naso, con le facce illuminate da una fonte innaturale, si gonfiavano come per una lenta esplosione che fosse avvenuta tra di loro. Ebbe il tempo di riconoscerli entrambi - di vedere i sorrisi sui loro volti quando i loro sguardi si incontrarono - poi, con suo orrore, essi sembrarono voltarsi verso la tela. Vide superfici rosse e bagnate che si piegavano su loro stesse non una, ma tre volte in rapida successione, e ogni piega diminuiva la loro ampiezza, fino a che rimasero soltanto frammenti di sostanza che si piegarono, si piegarono e infine scomparvero.

Judith si appoggiò allo stipite della porta, e lo choc le fece vibrare i nervi. Il cane che aveva trovato in attesa in cima alle scale raggiunse senza paura il punto in cui le figure erano scomparse. E non c'era più magia che potesse portarlo con loro. Il posto era morto. Erano andati, bastardi, dovunque quella strada portasse.

Questo pensiero fece nascere in lei un grido di rabbia, sufficiente a spedire il cane di corsa alla ricerca di un rifugio.

Judith sperava vivamente che Gentle l'avesse sentita, dovunque fosse. Non era andata fin lì per confidargli le sue rivelazioni, in modo da poter indagare insieme sull'ignoto? E per tutto quel tempo lui si stava preparando a partire senza di lei. Senza di lei!

"Come osi?" gridò allo spazio vuoto.

Il cane guaì dalla paura, e la vista del suo terrore la calmò. Si accovacciò.

"Mi dispiace," gli disse. "Vieni qui. Non sono arrabbiata con te. Ce l'ho con quello stronzo di Gentle."

Dapprima il cane era riluttante, ma dopo un poco le si avvicinò, con la coda che scodinzolava a intermittenza mentre si rassicurava sulla sua sanità mentale. Jude gli accarezzò la testa, e il contatto la calmò. Non tutto era perduto. Quello che poteva fare Gentle poteva farlo anche lei. Lui non aveva l'esclusiva dell'avventura. Avrebbe trovato un modo per andare dove era andato lui, anche se per farlo avesse dovuto mangiarsi l'occhio blu, grammo a grammo.

Mentre sedeva rimuginando, le campane cominciarono a suonare, annunciando con il loro frastuono stridente l'arrivo della mezzanotte. Il loro clamore era accompagnato da clacson di auto dalla strada e da acclamazioni che venivano da una festa nella casa accanto.

"Urrà!" disse tranquillamente, e sul suo viso comparve lo sguardo distratto che nel corso degli anni aveva ossessionato così tanti esponenti del sesso opposto. Judith aveva dimenticato la maggior parte di loro: quelli che avevano lottato per lei; quelli che avevano perso le proprie mogli mentre inseguivano lei; anche quelli che avevano perso il proprio equilibrio mentale senza neppure riuscire a scuoterla: erano stati tutti dimenticati. La storia non l'aveva mai affascinata molto. Era il futuro che brillava nella sua mente, ora più che mai.

Il passato era stato scritto dagli uomini. Ma il futuro - pregno di ricche possibilità - il futuro era donna.

 

18

 

I

 

Fino alla fondazione di Yzordderrex voluta dall'Autarca per motivi più politici che geografici la città di Patashoqua, che si trovava sul confine del Quarto Dominio, proprio dove l'In Ovo delimitava il perimetro dei mondi riconciliati, si era fregiata del titolo di più importante Città dei Domini. Gli abitanti orgogliosi la chiamavano casje au casje, espressione che voleva semplicemente significare l'alveare degli alveari, un luogo di lavoro intenso e redditizio. La sua vicinanza al Quinto rendeva la città particolarmente soggetta alle sue influenze, e anche quando Yzordderrex divenne il centro del potere nei Domini, era a Patashoqua che chi voleva cavalcare sempre l'onda dello stile e delle innovazioni doveva cercare le cose del domani. Gli automezzi cambiarono per le strade di Patashoqua molto tempo prima che a Yzordderrex. Nei suoi locali notturni il rock and roll arrivò molto prima che a Yzordderrex. Ebbe hamburger, cinema, blue jeans e innumerevoli altri segni della cosiddetta modernità molto prima della grande città del Secondo. Ma non era tanto nelle banalità della moda che Patashoqua reinventava i modelli del Quinto Dominio, quanto nelle filosofie e nelle mentalità. In realtà gli abitanti di Patashoqua dicevano che un nativo di Yzordderrex si riconosceva perché assomigliava a loro com'erano ieri, e perché credeva a quello in cui loro avevano creduto fino al giorno precedente.

Ma, come la maggior parte delle città innamorate della modernità, Patashoqua aveva radici profondamente conservatrici. Mentre Yzordderrex era una città peccaminosa, famosa per gli eccessi dei Kesparate più bui, di notte le strade di Patashoqua erano tranquille, e i suoi abitanti se ne stavano nei loro letti con le mogli a progettare nuove mode. Il punto in cui questo insieme di chic e conservatorismo appariva più evidente era nell'architettura della città. Costruiti in una regione temperata, contrariamente a quelli della semitropicale Yzordderrex, gli edifici di Patashoqua non erano stati progettati pensando a un clima estremo, Comprendevano tanto costruzioni classicamente eleganti, erette per rimanere in piedi fino al giorno del giudizio, quanto espressioni di una qualche pazzia momentanea, destinate a essere demolite in capo a una settimana.

Era però ai confini della città che si potevano godere le visuali più straordinarie, perché lì era stata creata una seconda città parassita in cui vivevano gli abitanti dei Quattro Domini che erano sfuggiti alla persecuzione e che avevano visto in Patashoqua un luogo in cui le libertà di pensiero e di azione erano ancora possibili. E l'argomento di discussione che monopolizzava le riunioni in città era per quanto tempo le cose sarebbero rimaste tali. L'Autarca si era mosso contro altre città, paesi e stati che lui e i suoi consiglieri avevano giudicato focolai di pensieri rivoluzionari. Alcune di quelle città erano state rase al suolo, altre erano ricadute sotto la giurisdizione di Yzordderrex, e tutti i segni di indipendenza erano stati cancellati. La città universitaria di Hezoir, ad esempio, era stata ridotta in polvere, i cervelli dei suoi studenti letteralmente cavati dai loro crani e ammassati lungo le strade. Nell'Azzimulto gli abitanti di un'intera provincia erano stati decimati, secondo le voci, da una malattia introdotta nella regione dai rappresentanti dell'Autarca. I resoconti delle atrocità provenivano da fonti così numerose che la gente era quasi diventata indifferente di fronte agli ultimi orrori, finché naturalmente qualcuno non si chiese quanto tempo dovesse ancora passare perché l'Autarca rivolgesse il suo sguardo implacabile sull'alveare degli alveati. Allora i visi sbiancarono, e la gente cominciò a sussurrare di come progettasse di fuggire o di difendersi se quel giorno fosse mai arrivato; e tutti guardavano la loro stupenda città, costruita per rimanere in piedi fino al giorno del giudizio, e si chiedevano quanto mancasse a quel giorno.

 

II

 

Nonostante Pie'oh'pah gli avesse brevemente descritto le forze che infestavano l'In Ovo, Gentle ebbe solo un'impressione assai vaga dello stato buio e multiforme che si estendeva tra i Domini, dato che fu assorbito da uno spettacolo assai più vicino al suo cuore: quello del cambiamento cui entrambi i viaggiatori sottostarono quando i loro corpi dovettero assumere la tipica forma del passaggio.

Stordito dalla mancanza di ossigeno, Gentle non fu sicuro che quelli che percepì fossero fenomeni reali. Potevano i corpi aprirsi come fiori, e i semi di un io essenziale volare via da essi come gli diceva la sua mente? E quegli stessi corpi potevano essere ricomposti all'altro capo del viaggio, giungendo integri nonostante il trauma subito? Pareva di sì. Il mondo che Pie aveva chiamato Quinto si chiuse davanti agli occhi dei viaggiatori, ed essi volarono come sogni, trasportati in un luogo completamente diverso. Non appena vide la luce, Gentle cadde in ginocchio sulla roccia dura, bevendo l'aria di quel Dominio con gratitudine.

"Niente male davvero." Gentle sentì Pie che parlava. "Ce l'abbiamo fatta, Gentle. Per un momento ho pensato che non ci saremmo riusciti, ma ce l'abbiamo fatta!"

Gentle alzò la testa, e Pie lo aiutò ad alzarsi con la cinghia che li univa.

"Su! Su!" disse il mystif. "Non è bene cominciare un viaggio in ginocchio."

Gentle si accorse di trovarsi in una giornata luminosa, con un cielo senza nuvole e splendente come il verde oro fantasmagorico della coda di un pavone. Nel cielo non c'erano né sole né luna, ma l'aria stessa pareva lucente, e fu in quella luce che Gentle vide per la prima volta Pie dopo l'incendio. Forse in memoria di coloro che aveva perduto, il mystif portava ancora i vestiti che indossava quella notte, per quanto bruciati e insanguinati. Ma si era lavato via la sporcizia dal viso, e la sua pelle brillava nell'aria limpida.

"È bello vederti," disse Gentle.

"Anche per me."

Pie iniziò a sciogliere la cintura che li univa, mentre Gentle fece scorrere il suo sguardo sul Dominio. Si trovavano vicino alla sommità di una collina, a poche centinaia di metri dal perimetro di una baraccopoli cresciuta disordinatamente, dalla quale si levava un frastuono alacre. Le baracche si estendevano fino ai piedi della collina, e fino a metà di una pianura di terra color ocra priva di alberi, attraversata da un'autostrada trafficata che guidò lo sguardo di Gentle alle cupole e alle guglie di una città scintillante.

"Patashoqua?" chiese.

"E dove, sennò?"

"Allora sei stato preciso."

"Più di quanto osassi sperare. Si dice che la collina sulla quale ci troviamo sia il luogo in cui Hapexamendios si riposò appena arrivò dal Quinto. È chiamata Monte di Lipper Bayak. Non mi chiedere perché."

"La città è assediata?" disse Gentle.

"Non credo. Le porte mi sembrano aperte."

Gentle scrutò le mura lontane, e le porte erano effettivamente spalancate. "Allora chi sono queste persone? Sfollati?"

"Lo sapremo tra poco," disse Pie.

Il nodo era sciolto. Gentle si massaggiò il polso stretto dalla cintura, mentre guardava giù dalla collina. Vide muoversi tra le abitazioni improvvisate delle forme viventi che non somigliavano molto agli umani. Liberamente mischiati tra quelle ce n'erano altre che invece lo erano. Per lo meno non sarebbe stato difficile passare per uno del posto.

"Dovrai insegnarmi, Pie," disse Gentle. "Devo sapere tutto di tutto. Parlano inglese qui?"

"Una volta era una lingua assai popolare," replicò Pie. "Non posso credere che sia passata di moda. Ma prima che andiamo avanti, credo che tu debba sapere con chi ti sei messo in viaggio. Altrimenti, il modo con cui la gente reagirà vedendomi potrebbe confonderti."

"Dimmelo mentre andiamo," disse Gentle, ansioso di vedere da vicino gli stranieri che si trovavano di sotto.

"Come vuoi." Iniziarono a scendere. "Io sono un mystif; il mio nome è Pie'oh'pah. Questo lo sai. Ma non conosci il mio sesso."

"Credo di averlo indovinato," disse Gentle.

"Davvero?" chiese Pie sorridendo. "E qual è la tua supposizione?"

"Sei un androgino. Ho ragione?"

"In parte sì, certamente."

"Ma hai poteri illusionistici. Questo l'ho visto a New York."

"Non mi piace la parola illusione. Mi fa sembrare uno che fìnge, e io non lo sono."

"Allora cosa sei?"

"A New York, tu volevi Judith, ed è Judith ciò che hai visto. Era un'invenzione tua, non mia."

"Ma tu mi hai ingannato."

"Perché volevo stare con te."

"E ora stai fingendo?"

"Non ti sto ingannando, se è questo che intendi dire. Ciò che vedi è quello che io sono per te."

"Ma per gli altri?"

"Potrei essere qualcosa di diverso. A volte un uomo. Altre volte una donna."

"Potresti essere bianco?"

"Potrei riuscirci per un momento. Ma se avessi cercato di venire nel tuo letto alla luce del giorno, avresti capito che non ero Judith. O se tu fossi stato innamorato di un bambino di otto anni, o di un cane. Non ci sarei riuscito, se non ..." la creatura guardò intorno a sé "... in circostanze assai particolari."

Gentle combatté con quell'idea, mentre domande di carattere biologico, filosofico e lascivo gli riempivano la testa. Smise di camminare per un attimo, e si girò verso Pie. "Lascia che ti dica cosa vedo io," disse. "Tanto perché tu lo sappia."

"Bene."

"Se ti incrociassi per strada, penso che ti crederei una donna ..." sollevò la testa "... ma forse no. Penso che dipenda dalla luce, e dalla velocità con cui cammini." Rise. "Oh, merda," disse. "Più ti guardo, più vedo; e più vedo..."

"...meno sai."

"Esatto. Tu non sei un uomo. Questo è abbastanza evidente. Ma allora..." Scosse la testa. "Ti sto vedendo come sei veramente? Voglio dire, questa è la versione finale?"

"Naturalmente no. Ci sono panorami sconosciuti dentro di noi. Lo sai."

"Non fino a ora."

"Non possiamo andare nudi per il mondo. Ci bruceremmo gli occhi l'un l'altro."

"Ma quello che vedo sei tu."

"Per ora."

"Per quanto possa valere il mio giudizio, a me piace," disse Gentle. "Non so come ti definirei se ti vedessi per strada, ma mi volterei a guardarti. Cosa ne pensi?"

"Cosa potrei chiedere di più?"

"Incontrerò altri come te?"

"Forse qualcuno," disse Pie. "ma i mystif non sono comuni. Quando ne nasce uno, tra la mia gente ciò è motivo di grandi celebrazioni."

"Chi è la tua gente?"

"Gli Eurhetemec."

"E qui ce ne sono?" chiese Gentle, indicando con la testa verso la folla sottostante.

"Ne dubito. Ma a Yzordderrex, certamente. Lì hanno un Kesparate."

"Cos'è un Kesparate?"

"Un distretto. La mia gente occupa una città dentro la città. O per lo meno la occupava. Sono trascorsi duecentoventun anni da quando sono stato qui l'ultima volta."

"Mio Dio. Quanti anni hai?"

"Il doppio. So che sembra un'età inverosimile, ma il tempo agisce lentamente sulla carne toccata dai feit."

"Feit?"

"Magie. Feit, capricci, influssi. I loro miracoli agiscono anche su una puttana come me."

"Ehi!" esclamò Gentle.

"Oh, sì. Questa è un'altra cosa che dovresti sapere di me. Mi è stato detto tanto tempo fa che avrei dovuto condurre la vita di una puttana o di un assassino, ed è ciò che ho fatto."

"Forse fino ad ora. Ma adesso è finita."

"Cosa sarò d'ora in poi?"

"Mio amico," rispose Gentle senza esitazione.

Il mystif sorrise. "Ti ringrazio per questo."

La tornata di domande terminò lì, e i due si incamminarono fianco a fianco lungo la discesa.

"Non rendere troppo evidente il tuo interesse," gli consigliò Pie mentre si avvicinavano a quella conurbazione di fortuna. "Fingi di essere uno che ha ogni giorno davanti a sé questo genere di cose."

"Sarà difficile," previde Gentle.

E infatti così fu. Camminare attraverso gli stretti spazi tra le baracche era come passare attraverso un paese in cui l'aria stessa avesse ambizioni evoluzioniste, e respirare significava cambiare. Centinaia di occhi diversi li fissarono da porte e finestre, mentre centinaia di membra si affaccendavano nelle mansioni quotidiane: cucinare, accudire i bambini, svolgere lavori artigianali, essere compiici in qualche delitto, fare il fuoco, fare affari e fare l'amore; e tutto ciò si succedeva a tale velocità che, dopo alcuni passi, Gentle fu costretto a guardare altrove, e si mise a studiare la fogna fangosa nella quale stavano camminando, per paura che la sua mente venisse sopraffatta da quell'incredibile profusione di stimoli visivi. E olfattivi, anche: odori aromatici, nauseanti, agri e dolci; e rumori che gli facevano rimbombare la testa e tremare le budella.

Fino a quel momento nella sua vita, nella veglia o nel sonno, non c'era stato nulla che lo avesse preparato a questo. Aveva studiato i capolavori di grandi geni immaginifici - aveva dipinto un Goya passabile una volta, e venduto per una piccola fortuna un Ensor - ma la differenza tra pittura e realtà era enorme, un divario di cui non avrebbe potuto conoscere per definizione la grandezza fino al momento in cui non avesse avuto davanti a sé l'altra metà dell'equazione. Quello non era un luogo inventato, e i suoi abitanti non erano variazioni sul tema di fenomeni reali. Era qualcosa di indipendente dai suoi termini di riferimento: un luogo in se stesso. Quando alzò nuovamente lo sguardo, sfidando l'assalto delle stranezze, Gentle si rallegrò che lui e Pie si trovassero ora in un quartiere occupato da entità più umane, per quanto anche lì le sorprese non mancassero. Ciò che sembrava essere un bambino a tre gambe saltò davanti a loro e guardò indietro con il viso raggrinzito come un cadavere in un deserto, e la terza gamba si rivelò una coda. Una donna seduta sulla soglia di casa, i cui capelli venivano pettinati dal consorte, raccolse attorno al corpo le proprie sottane quando Gentle guardò nella sua direzione, ma non fu abbastanza veloce da nascondergli il fatto che un secondo consorte, con la pelle di aringa e un occhio che gli circondava tutta la testa, inginocchiato davanti a lei, le stava iscrivendo dei geroglifici sulla pancia con la punta affilata della mano. Sentì parlare una gran varietà di lingue, ma l'inglese sembrava essere quella più comune, anche se a volte fortemente accentata, o corrotta dall'anatomia labiale del parlante. Alcuni parevano cantare i propri discorsi; altri quasi vomitarli.

Ma la voce che li chiamò da una delle vie affollate alla loro destra, si sarebbe potuta udire in qualsiasi strada di Londra: un grido biascicato e pomposo che intimava loro di fermarsi. I due guardarono nella sua direzione. La folla si era fatta da parte per permettere a chi aveva urlato e ai suoi tre accompagnatori di passare.

"Fai il finto tonto," bisbigliò Pie a Gentle, mentre il biascicatore, un mascherone ipernutrito e calvo se si eccettuava un'assurda ghirlanda di ricci unti, si avvicinava.

Era vestito con raffinatezza, con alti stivali neri lucidi e la giacca giallo canarino fittamente ricamata secondo quella che Gentle avrebbe presto riconosciuta per la moda di Patashoqua. Lo seguiva un uomo abbigliato in modo assai meno appariscente, con un occhio coperto da una benda su cui le piume caudali di un uccello scarlatto parevano eternare il momento della sua mulilazione. Sulle spalle portava una donna in nero, con una pelle in diverse gradazioni d'argento e, tra le mani minute, un bastone con cui colpiva la testa della propria cavalcatura per farla accelerare. Dietro a loro c'era il più strano dei quattro.

Gentle udì Pie mormorare: "Un Nullianac." E non ebbe bisogno di chiedere se fosse una buona o cattiva notizia. La creatura era la migliore pubblicità di se stessa, ed era portatrice di male. La sua testa somigliava a mani giunte in preghiera, i pollici verso l'alto, che terminavano con occhi di aragosta, lo spazio tra i palmi largo quanto bastava per intravedervi il cielo nel mezzo, ma lampeggiante, allorché archi di energia lo attraversavano da una parte all'altra. Era senza dubbio l'essere vivente più disgustoso che Gentle avesse mai visto. Se Pie non avesse suggerito di obbedire all'ordine, e di fermarsi, Gentle se la sarebbe data immediatamente a gambe pur di non lasciare che il Nullianac si avvicinasse a loro di un altro passo.

Il biascicatore si era fermato e si rivolse di nuovo a loro.

"Che cosa vi porta, a Vanaeph?" volle sapere.

"Siamo solo di passaggio," disse Pie: una risposta piuttosto priva d'inventiva, pensò Gentle.

"Chi siete?" domandò l'uomo.

"Lei chi è?" domandò a sua volta Gentle.

La cavalcatura con la benda sull'occhio sghignazzò, e per questo venne colpita sulla testa.

"Loitus Hammeryock," rispose il biascicatore.

"Il mio nome è Zacharias," disse Gentle, "e questo è..."

"Casanova," lo anticipò Pie, cosa che gli guadagnò un'occhiata interrogativa da parte di Gentle.

"Zooical!" disse la donna. "D'yee speakat te gloss?"

"Certo," rispose Gentle. "I speakat te gloss."

"Sii prudente," sussurrò Pie.

"Bone! Bone!" continuò la donna, e iniziò a spiegare in una lingua composta di due parti di inglese, o una sua variante, di una parte di latino e di una parte di un qualche dialetto del Quarto Dominio che consisteva in schiocchi di lingua e battiti di denti che tutti coloro che venivano da fuori città, e la città si chiamava Neo Vanaeph, dovevano registrare le proprie origini e intenzioni prima che venisse loro consentito l'accesso; o, per meglio dire, il permesso di andarsene. Nonostante l'aspetto sgangherato, sembrava che Vanaeph non fosse un covo di fuorilegge, ma una cittadina assiduamente pattugliata dalla polizia, e la donna che si presentò in quella raffica di lessici come Sommo Pontefice Farrow era un notabile del luogo.

Quando ebbe finito, Gente lanciò un'occhiata smarrita a Pie. Le cose si facevamo ogni momento più difficili. Nel discorso del Pontefice c'era la malcelata minaccia di un'esecuzione sommaria qualora non avessero risposto in modo soddisfacente alle domande. Non era difficile individuare tra di loro il carnefice: quello con la testa in preghiera, il Nullianac sullo sfondo, in attesa di istruzioni.

"Sicché," disse Hammeryock, "abbiamo bisogno di qualche documento di identità."

"Io non ne ho," disse Gentle.

"E tu?" chiese a Pie, il quale scosse la testa.

"Spie," sibilò il Gran Pontefice.

"No, siamo solo... turisti," disse Gentle.

"Turisti?" ripeté Hammeryock.

"Siamo venuti a vedere le bellezze di Patashoqua." Si girò verso Pie in cerca di sostegno. "Quali che siano."

"Le tombe del Veemente Loki Lobb..." disse Pie, chiaramente alla ricerca affannosa delle gloria che Patashoqua aveva da offrire, "... e del Merrow Ti'Ti'."

Alle orecchie di Gentle l'espressione suonò gradevole. Finse un sorriso di entusiasmo. "Il Merrow Ti'Ti'!" esclamò. "Assolutamente! Non mi perderei il Merrow Ti'Ti' per tutto il tè della Cina."

"Cina?" chiese Hammeryock.

"Ho detto Cina?"

"L'hai detto."

"Quinto Dominio..." mormorò il Gran Sacerdote. "Spie del Quinto Dominio."

"Rifiuto con sdegno questa accusa," disse Pie'oh'pah.

"Anch'io," disse una voce dietro l'accusato.

Pie e Gentle si voltarono e videro un individuo barbuto e irsuto, che indossava un qualcosa che poteva essere definito con qualche generosità un abito multicolore e meno generosamente un ammasso di stracci, in piedi su una gamba sola, che grattava via con un bastone della merda dalla suola dell'altro piede.

"È l'ipocrisia che mi disgusta, Hammeryock," disse. "Voi due pontificate," continuò con uno sguardo indignato, "sulla necessità di tenere le strade sgombre dagli indesiderabili, ma non fate nulla contro la merda dei cani!"

"Questo non è affar vostro, Sua Rozzezza," disse Hammetyock.

"E invece sì. Questi sono amici miei e tu li hai insultati con le tue accuse e i tuoi sospetti."

"Amici, stai dicendo?" mormorò il Gran Pontefice.

"Sissignora. Amici. Tra noi c'è ancora qualcuno che conosce la differenza tra una conversazione e una diatriba. Io ho amici con i quali parlo e scambio idee. Avete presenti le idee? Sono quelle che rendono la vita degna di essere vissuta."

Hammeryock non riuscì a nascondere il proprio disagio, udendo qualcuno rivolgersi alla sua padrona in quel modo, ma chiunque fosse Sua Rozzezza, emanava sufficiente autorità per mettere a tacere quasiasi ulteriore obiezione.

"Tesori miei," disse a Gentle e Pie, "andiamo a rifugiarci a casa mia?"

Come gesto di commiato lanciò nella direzione di Hammeryock il bastone che atterrò nel fango tra le gambe dell'uomo.

"Pulisci, Loitus," disse Sua Rozzezza. "Non vogliamo certo che il calcagno dell'Autarca scivoli nella merda, non è vero?"

Le strade dei due gruppi si separarono; Sua Rozzezza precedeva Pie e Gentle attraverso il labirinto.

"Vorremmo ringraziarti," disse Gentle.

"Per cosa?" chiese Sua Rozzezza, cercando di tirare un calcio a una capra che passeggiava per la via.

"Per averci tirato fuori dai guai," rispose Gentle. "Adesso proseguiamo per la nostra strada."

"Ma dovete venire con me," disse Sua Rozzezza.

"Non è necessario."

"Non è necessario? È assolutamente necessario. Ho capito bene?" disse a Pie. "E necessario oppure no?"

"Il tuo acume ci farebbe certamente comodo," disse Pie. "Qui siamo stranieri. Tutti e due." Il mystif parlava in modo stranamente innaturale, come se volesse dire di più ma non potesse. "Abbiamo bisogno di essere reistruiti," aggiunse.

"Oh?" esclamò Sua Rozzezza. "Davvero?"

"Chi è questo Autarca?" chiese Gentle.

"Governa i Domini Riconciliati, da Yzordderrex. È la più grande potenza dell'Imagica."

"E sta per arrivare qui?"

"A quanto si dice. Sta perdendo potere nel Quarto, e lo sa. Perciò ha deciso di fare un'apparizione di persona. Ufficialmente visita Patashoqua, ma è qui che bollono i guai."

"Sei sicuro che verrà?" chiese Pie.

"Se non lo fa, tutta l'Imagica saprà che ha paura di mostrare la sua faccia. Naturalmente ciò è sempre stato parte del suo fascino. In tutti questi anni ha governato i Domini senza che nessuno sapesse con esattezza quale fosse il suo aspetto. Ma ora l'incanto è sparito. Se vuole evitare la rivoluzione, dovrà provare di essere un capo carismatico."

"Avrai dei problemi per aver detto a Hammeryock che eravamo amici tuoi?" chiese Gentle.

"Probabilmente, ma sono stato accusato di cose peggiori. Inoltre, è quasi vero. Qui ogni straniero è amico mio." Gettò uno sguardo a Pie. "Anche un mystif," disse. "La gente di questo mucchio di letame non possiede alcuna poesia. So che dovrei essere più comprensivo. La maggior parte di loro sono profughi. Hanno perso le loro terre, le loro case, le loro tribù. Ma sono così presi dai loro minuscoli dispiaceri che non vedono il quadro completo."

"E qual è il quadro completo?" chiese Gentle.

"È una cosa di cui credo sia meglio discutere a porte chiuse," rispose Sua Rozzezza, e non si lasciò più sfuggire altro sull'argomento fino a che non furono al sicuro nella sua capanna.

 

La capanna era spartana fino all'estremo: coperte su una tavola come letto; un'altra tavola come tavolo; qualche cuscino mangiato dalle tarme per sedersi.

"Ecco come sono ridotto," disse Sua Rozzezza a Pie, come se il mystif comprendesse, forse addirittura condividesse, il suo senso di umiliazione. "Se me ne fossi andato le cose sarebbero state diverse. Ma naturalmente non potevo."

"Perché no?" chiese Gentle.

Sua Rozzezza gli lanciò un'occhiata interrogativa, guardando poi Pie e poi ancora Gentle.

"Pensavo fosse evidente," disse. "Sono rimasto al mio posto. Rimarrò qui finché non giungeranno giorni migliori."

"E quando succederà?" indagò Gentle.

"Dimmelo tu," replicò Sua Rozzezza, mentre una certa amarezza pervadeva la sua voce. "Domani non sarebbe ancora abbastanza presto. Questa non è vita per uno che ha i miei poteri. Voglio dire, guardatevi attorno!" Fece scorrere il suo sguardo per la stanza. "E lasciate che vi dica che questo è un lusso a confronto di alcuni tuguri che potrei mostrarvi. Gente che vive nei propri escrementi, scavando per trovarsi il cibo. E, tutto questo, in una delle città più ricche dei Domini. E osceno. Se non altro io ho lo stomaco pieno. E sono rispettato, sapete. Nessuno mi contrasta. Sanno che sono un evocatore, è si tengono a distanza. Anche Hammeryock. Mi odia visceralmente, ma non oserebbe mai mandare qui il Nullianac a uccidermi, perché se fallisse sarei poi io a andare a cercare lui. E lo farei. Oh sì, e ne sarei molto felice. Piccolo stronzo pomposo."

"Dovresti semplicemente andartene," disse Gentle. "Vai a vivere a Patashoqua."

"Per favore," disse Sua Rozzezza, con un tono vagamente addolorato. "Vogliamo scherzare? Non ho dato prova della la mia integrità? Vi ho salvato la vita."

"E te ne siamo grati," disse Gentle.

"Non voglio la vostra gratitudine," disse Sua Rozzezza.

"Cosa vuoi allora? Soldi?"

A questo, Sua Rozzezza si alzò dal cuscino, con il viso arrossato, non dalla vergogna, ma dalla rabbia.

"Questa non me la merito," disse.

"Merito cosa?" disse Gentle.

"Ho vissuto nella merda," disse Sua Rozzezza, "ma che io sia dannato se questa me la ingoio! Va bene, non sono un grande Maestro. Magari lo fossi! Vorrei che Uter Musky fosse ancora vivo, avrebbe potuto aspettare lui qui per tutti questi anni al mio posto. Ma lui è andato, e io sono tutto quello che è rimasto! Prendetemi così come sono o sloggiate!"

Lo sfogo disorientò completamente Gentle. Guardò verso Pie, cercando una spiegazione, ma il mystif aveva chinato il capo.

"Forse è meglio se ce ne andiamo," disse Gentle.

"Sì! Perché non lo fate?" urlò Sua Rozzezza. "Andate dove cazzo volete. Forse potete trovare la tomba di Musky e farlo resuscitare. È là fuori sulla montagna. L'ho seppellito io con queste mani!" Ora la sua voce stava per spezzarsi: oltre alla rabbia, c'era del dolore. "Potete tirarlo fuori allo stesso modo!"

Gentle iniziò ad alzarsi, comprendendo che qualsiasi altra parola avrebbe avuto il solo effetto di suscitare in Sua Rozzezza un'altra eruzione o un crollo, e non avrebbe voluto assistere a nessuna delle due cose. Ma il mystif allungò una mano e afferrò il braccio di Gentle.

"Aspetta," disse Pie.

"Quest'uomo ci vuole mandare via," replicò Gentle.

"Lasciami parlare con lui per qualche minuto."

L'evocatore fissò con ira il mystif.

"Non sono dell'umore adatto per le seduzioni," lo avvisò.

Pie scosse la testa. "Nemmeno io," disse, guardando Gentle.

"Vuoi che esca?" disse questi.

"Non per molto."

Gentle alzò le spalle, anche se si sentiva assai meno sicuro all'idea di lasciare Pie in compagnia di Sua Rozzezza di quanto il suo atteggiamento facesse pensare. C'era qualcosa, nel modo in cui quei due si fissavano e si studiavano, che gli faceva sospettare che nascondessero qualcosa. Se era così, si trattava sicuramente di un segreto di natura sessuale, nonostante i loro dinieghi.

"Sarò qui fuori," disse Gentle, e li lasciò a parlare.

Non appena ebbe chiuso la porta, sentì che i due riprendevano a parlare all'interno. Dalla baracca di fronte usciva un gran frastuono - un bambino che piangeva, un madre che cercava di calmarlo con una ninnananna stonata - ma Gentle riuscì a cogliere frammenti di conversazione. Sua Rozzezza era ancora infuriato: "È una specie di punizione?" domandò a un certo punto; poi, alcuni istanti più tardi: "Paziente? Per quanto altro stramaledetto tempo dovrò essere paziente?"

La ninnananna coprì la maggior parte del discorso seguente, e quando si spense la conversazione dentro la baracca di Sua Rozzezza aveva preso una direzione completamente diversa.

"Abbiamo una lunga strada da percorrere..." sentì dire Gentle a Pie "e tanto da imparare..."

Sua Rozzezza diede una qualche risposta incomprensibile, alla quale Pie ringhiò: "Qui lui è uno straniero."

Sua Rozzezza mormorò qualcosa.

"Non posso farlo," sentì dire da Pie. "È una mia responsabilità."

Ora la voce di Sua Rozzezza si alzò abbastanza perché Gentle potesse udirla.

"Stai sprecando il tuo tempo," disse l'evocatore. "Rimani qui con me. La notte sento la mancanza di un corpo caldo."

A questo punto la voce di Pie si abbassò diventando un sussurro. Gentle fece un mezzo passo verso la porta, e riuscì a cogliere alcune parole del mystif. Disse "cuore infranto," ne era sicuro; poi qualcosa circa la fede. Ma il resto era un mormorio troppo tenue per essere compreso. Decidendo che aveva lasciato quei due fin troppo tempo da soli, annunciò che stava tornando dentro, ed entrò. Entrambi alzarono lo sguardo verso di lui; con aria piuttosto colpevole, pensò Gentle.

"Voglio andarmene da qui," annunciò.

La mano di Sua Rozzezza era sul collo di Pie, e vi rimase, come se rivendicasse dei diritti.

"Se ve ne andate," disse Sua Rozzezza al mystif, "non posso garantire della vostra sicurezza. Hammeryock vorrà il vostro sangue." .

"Possiamo difenderci da soli," disse Gentle, piuttosto stupito dalla propria sicumera.

"Forse non dovremmo essere così precipitosi," si intromise Pie.

"Abbiamo un viaggio da fare," replicò Gentle.

"Lascia che decida da sola," suggerì Sua Rozzezza. "Non è una tua proprietà."

Dopo questa affermazione, uno sguardo strano attraversò il viso di Pie'oh'pah. Non era più colpevole, ora, ma preoccupato; poi si addolcì fino alla rassegaazione. Il mystif si portò la mano al collo, liberandosi dalla presa di Sua Rozzezza.

"Ha ragione," disse all'evocatore. "Abbiamo un viaggio da fare."

Sua Rozzezza strinse le labbra, come se stesse valutando se insistere ulteriormente o no. Poi disse: "Va bene. È meglio che andiate."

Lanciò un'occhiata torva a Gentle.

"Che tutto sia come sembra, straniero."

"Grazie," disse Gentle, e scortò Pie fuori dalla capanna, nel fango e nel trambusto di Vanaeph.

 

"Che frase strana," osservò Gentle mentre si trascinavano a fatica lontano dalla capanna di Sua Rozzezza. "Che tutto sia come sembra."

"È la maledizione più terribile che un essere dotato di poteri possa lanciare," disse Pie.

"Capisco."

"No, al contrario," replicò Pie, "non credo che tu capisca molto."

Nelle parole di Pie c'era una nota di accusa contro la quale Gentle si ribellò.

"Di sicuro ho capito quello che stavi facendo tu," disse. "Eri mezzo tentato di rimanere con lui. E sbattevi gli occhi come una ..." Si fermò.

"Continua," lo esortò Pie. "Dillo. Come una troia."

"Non era questo che volevo dire."

"No, ti prego," insisté Pie con amarezza. "Continua pure con gli insulti. Perché no? Può essere molto eccitante."

Gentle lanciò a Pie un'occhiata disgustata.

"Hai detto che volevi istruirti, Gentle. Cominciamo da 'che tutto sia come sembra.' È una maledizione, perché se fosse così noi vivremmo solo per morire, e il fango sarebbe il Re dei Domini."

"Ho afferrato," disse Gentle. "E tu saresti solo una troia."

"E tu saresti solo un falsario che lavora per..."

Prima che riuscisse a terminare la frase un branco di animali sbucò fuori correndo da dietro due delle casupole; grugnivano come maiali, anche se somigliavano più a piccoli lama. Gentle guardò nella direzione dalla quale erano venuti, e vide avanzare tra le baracche una cosa da far venire i brividi.

"Il Nullianac!"

"Lo vedo!" disse Pie.

Mentre il carnefice si avvicinava, le mani in preghiera sulla sua testa si aprivano e chiudevano, come per raccogliere tra i palmi l'energia fino a farla diventare un calore mortale. Ci furono grida di allarme dalle case vicine. Le porte vennero sprangate. Le persiane serrate. Un bambino venne strappato da una soglia, e cominciò a piangere. Gentle ebbe appena il tempo di vedere il carnefice estrarre due armi, con lame che riflettevano la luce livida degli archi, e un istante dopo stava già seguendo le istruzioni di Pie, che gli aveva ordinato di correre e gli faceva strada.

Il vicolo in cui si trovavano non era più grande di uno stretto canale di scolo, ma era un'autostrada ben illuminata in confronto allo stretto budello nel quale entrarono poco dopo. Pie aveva il passo veloce, Gentle no. Per due volte il mystif girò un angolo e Gentle passò oltre. La seconda volta Gentle perse del tutto Pie nell'oscurità e nella sporcizia, e stava per tornare sui propri passi quando udì la lama del carnefice colpire qualcosa alle sue spalle; guardò indietro e vide una delle case più deboli che si piegava su se stessa in una nuvola di polvere e grida, mentre la forma del demolitore, con la testa che emanava lampi, spuntava dal caos e fissava lo sguardo su di lui. Individuato il suo obiettivo, il carnefice avanzò con improvvisa velocità, e Gentle balzò verso il primo angolo in cerca di riparo, imboccando così una strada che lo portò in una palude di acque luride che egli riuscì con fatica ad attraversare senza cadere, procedendo poi verso passaggi ancora più stretti.

Sapeva che era solo una questione di tempo, che quanto prima sarebbe terminato in un vicolo cieco. Quando fosse successo, il gioco sarebbe finito. Si sentì prudere la nuca, come se le lame incombessero già sul suo collo. Non era giusto! Era stato fuori dal Quinto per un'ora ed era già a pochi secondi dalla morte, Guardò indietro: il Nullianac aveva diminuito la distanza tra di loro. Gentle aumentò la velocità, gettandosi dietro a un angolo e poi in un tunnel di lamiera ondulata, senza una via d'uscita all'altra estremità.

"Merda!" disse, usando come esclamazione la parola preferita da Sua Rozzezza. "Furie, ti sei ucciso con le tue mani."

Le pareti del budello erano alte e rese scivolose dalla sporcizia, Sapendo che non sarebbe mai stato in grado di scalarle, corse verso il fondo e si gettò contro il muro, sperando di abbatterlo. Ma i suoi costruttori (accidenti a loro!) erano stati artigiani migliori della maggior parte di quelli della zona. Il muro vacillò, e pezzi di malta fetida caddero intorno a lui, ma tutto ciò che i suoi sforzi riuscirono a fare fu di portare il Nullianac, attirato dal rumore, direttamente da lui.

Vedendo il suo carnefice avvicinarsi, Gentle si gettò nuovamente contro il muro, sperando che l'esecuzione potesse venire sospesa all'ultimo minuto. Ma tutto ciò che ottenne furono dei lividi. Il prurito alla nuca si era ormai tramutato in dolore, ma attraverso quel dolore Gentle formulò il pensiero disperato che essere tagliato a pezzi in mezzo ad acque putride era la più ignobile delle morti. Cosa aveva fatto per meritarsi questo, si chiese ad alta voce.

"Che cosa ho fatto? Che cosa cazzo ho fatto?"

La domanda rimase senza risposta... o no? Mentre le sue grida cessavano, si ritrovò a sollevare una mano verso il viso, senza sapere perché. Obbedì semplicemente a un impulso interno, aprì la mano e ci sputò sopra. La saliva era fredda, o forse era la sua mano a essere calda. A meno di un metro di distanza, il Nullianac alzò le due lame sopra la testa. Gentle strinse la mano a pugno, leggermente, e vi avvicinò la bocca. Quando le lame raggiunsero l'apice della loro traiettoria, Gentle espirò.

Sentì il respiro sfiorargli la mano, e un istante prima che le lame lo colpissero sulla testa, il soffio partì dal suo pugno come una pallottola. Colpì il Nullianac sul collo con una forza tale da gettarlo all'indietro, mentre dal varco nella sua testa partiva un breve scatto di energia livida, che si sollevava come un fulmine mortale verso il cielo. La creatura cadde nella sporcizia, mentre le mani lasciarono cadere le spade per portarsi alla ferita. Non la raggiunsero mai. La vita uscì da lui con uno spasmo, e la sua testa tanto devota tacque per sempre.

Scosso dalla morte dell'altro almeno quanto dalla prossimità della propria, Gentle si alzò in piedi, e il suo sguardo corse dal corpo nella sporcizia alla propria mano. La aprì. La saliva era scomparsa, trasformata in un dardo mortale. Un segno di scolorimento gli percorreva il palmo della mano dal polpastrello del pollice all'altra estremità della mano: era l'unico segno del passaggio del soffio.

"Merda!" esclamò.

All'entrata del vicolo cieco si era raccolta una piccola folla, e sul muro dietro a lui apparvero delle teste. Da ogni lato proveniva un brusio che, immaginava, non ci avrebbe messo molto a raggiungere Hammeryock e il Gran Pontefice Farrow. Sarebbe stato ingenuo ipotizzare che governassero Vanaeph con un solo carnefice nel loro squadrone. Dovevano essercene altri; e sarebbero stati lì molto presto. Gentle scavalcò il corpo, senza guardare da vicino il danno che aveva provocato, ma rendendosi conto con un solo sguardo veloce che era consistente.

La folla, vedendo il vincitore che si avvicinava, si aprì. Alcuni gli si inchinarono, altri fuggirono. Uno disse "bravo!" e cercò di baciargli la mano. Gentle spinse via l'ammiratore e scrutò nel vicolo in ogni direzione, sperando di trovare qualche segno di Pie'oh'pah. Non riuscendovi, esaminò le possibilità che gli restavano. Dove sarebbe andato Pie? Non sulla cima del Monte. Era un punto d'incontro visibile, ma li avrebbero avvistati anche i loro nemici. Dove? Forse verso le porte di Patashoqua che il mystif aveva indicato appena erano arrivati? Era un posto come un altro, pensò Gentle, e partì, attraversando la brulicante Vanaeph, verso la città gloriosa.

I suoi timori che la notizia del suo crimine avesse raggiunto il Gran Pontefice e la sua squadra vennero presto confermati. Gentle si trovava quasi alla fine della baraccopoli e poteva vedere il terreno sgombro che si stendeva tra i suoi confini e le mura di Patashoqua, quando il clamore dalle strade dietro di lui annunciò una squadra di inseguimento. Nel suo abbigliamento da Quinto Dominio, jeans e maglietta, se si fosse diretto verso le porte sarebbe stato facilmente riconoscibile, ma se avesse tentato di rimanere entro i confini di Vanaeph, venire rintracciato sarebbe stata soltanto una questione di tempo. Era meglio, decise, mettersi a correre finché aveva ancora un vantaggio. Anche se non ce l'avesse fatta a raggiungere le porte, prima che lo trovassero, certamente non lo avrebbero eliminato ai piedi delle splendenti mura di Patashoqua.

Prese una certa velocità, e fu fuori dall'abitato in meno di un minuto, mentre il clamore alle sue spalle cresceva di intensità. Anche se era difficile valutare la distanza fino alle porte in una luce che dava al terreno circostante una tale iridescenza, il cammino da percorrere era certamente non inferiore a un paio di chilometri, forse tre. Non si era allontanato di molto, quando il primo dei suoi inseguitori apparve dai sobborghi di Vanaeph, più fresco e più veloce di lui, coprendo rapidamente la distanza che li separava. Lungo la strada dritta che arrivava alle porte c'erano molti viaggiatori che andavano e venivano. Alcuni a piedi, la maggior parte in gruppi, e vestiti come pellegrini; altri, figure più eleganti, montavano cavalli i cui fianchi e le cui teste erano dipinti in modo sfarzoso; altri ancora cavalcavano degli animali irsuti derivati dal mulo. I più invidiati, comunque, e i più rari, erano quelli su veicoli a motore che, pur somigliando generalmente ai loro equivalenti del Quinto (un telaio su ruote) erano sotto ogni altro aspetto pure invenzioni. Alcuni erano elaborati come pezzi di un altare barocco, ogni centimetro della carrozzeria era cesellato e filigranato. Altri, con ruote sottili alte due volte i loro tetti, avevano la delicatezza ridicola di insetti tropicali. Altri ancora erano montati su una dozzina o più di piccole ruote, con i tubi di scappamento che emettevano un fumo denso e acre, e somigliavano a rottami in movimento, farragini asimmetriche e ineleganti di vetro e metallo. Rischiando la morte sotto zoccoli e ruote, Gentle si unì al traffico, aumentando la velocità quando si trovò nascosto fra i veicoli. Anche i primi del gruppo che lo inseguiva avevano raggiunto la strada. Vide che erano armati e non si facevano scrupolo di mostrare le proprie armi. L'idea che non avrebbero tentato di ucciderlo in mezzo a testimoni parve a Gentle improvvisamente infondata. Forse le leggi di Vanaeph trovavano applicazione solo fino alle porte di Patashoqua. Se era così, era morto. Lo avrebbero raggiunto molto prima che lui arrivasse al rifugio.

Ma ora, sopra il frastuono dell'autostrada, un altro suono lo raggiunse, e Gentle osò dare un'occhiata alla sua sinistra, dove vide un piccolo veicolo, semplice, con il motore scarburato, che sbandava nella sua direzione. Aveva la capote aperta, e il guidatore era visibile. Pie'oh'pah, che Dio lo benedica, guidava come un uomo o un mystif posseduto da un demonio. Gentle cambiò direzione immediatamente e si allontanò dalla strada, dividendo così un gruppo di pellegrini, correndo verso il cocchio rombante di Pie.

Un coro di grida alle sue spalle gli fece capire che anche i suoi inseguitori avevano cambiato direzione, ma la vista di Pie gli aveva messo le ali ai piedi. La sua accelerazione fu comunque superflua. Anziché rallentare per far salire Gentle a bordo, Pie gli passò oltre, dirigendosi verso gli inseguitori. Vedendo il veicolo che si faceva largo verso di loro, quelli che erano in testa si sparpagliarono, e Gentle capì che il vero obiettivo di Pie era una figura su portantina che fino a quel momento non aveva visto. Hammeryock, seduto in alto, pronto ad assistere all'esecuzione, divenne improvvisamente a sua volta un bersaglio. Gridò ai suoi portatori di tornare indietro, ma quelli, presi dal panico, non seppero accordarsi sulla direzione da prendere. Due tirarono a sinistra, due a destra. Uno dei braccioli del sedile si frantumò, e Hammeryock venne scagliato fuori, cadendo pesantemente sul terreno. Non si alzò. La portantina venne abbandonata e i portatori fuggirono, lasciando che Pie voltasse il veicolo e tornasse a dirigersi verso Gentle. Nel vedere il loro capo abbattuto, gli inseguitori sparpagliati che molto probabilmente erano obbligati a servire il Gran Pontefice, avevano perso coraggio. Non erano sufficientemente motivati per rischiare di fare la fine di Hammeryock, e rimasero perciò a distanza, mentre Pie tornava indietro e raccoglieva il suo ansante passeggero.

"Pensavo che fossi tornato indietro da Sua Rozzezza," disse Gentle una volta salito.

"Non mi avrebbe voluto," disse Pie. "Ho avuto rapporti con un assassino."

"E chi è?"

"Tu, amico mio, tu! Ora siamo entrambi assassini."

"Immagino di sì."

"E non molto benvenuti in questa regione, credo."

"Dove hai trovato questa vettura?"

"Ce ne sono alcune parcheggiate in periferia. Tra non molto anche loro le prenderanno, per inseguirci."

"Allora prima siamo in città, meglio è."

"Non credo che lì saremmo al sicuro per molto," replicò il mystif.

Aveva manovrato il veicolo in modo che il suo muso all'insù fosse rivolto verso l'autostrada. Dovevano scegliere. A sinistra, le porte di Patashoqua. A destra, un'autostrada che passava accanto al Monte di Lipper Bayak, verso un orizzonte costituito, al limite più estremo visibile, da una catena di montagne.

"A te la scelta," disse Pie.

Gentle guardò con bramosia la città, tentato dalle sue guglie. Ma sapeva che il consiglio di Pie era saggio.

"Un giorno ritorneremo, non è vero?"

"Certamente, se è questo che vuoi."

"Allora andiamo nell'altra direzione."

Il mystif immise il veicolo sull'autostrada, contro il flusso di traffico, e lasciata la città alle spalle acquistarono ben presto velocità.

"E questo è tutto per quanto riguarda Patashoqua," disse Gentle mentre le mura divenivano un miraggio.

"Non è una grande perdita," fece notare Pie.

"Ma io volevo vedere il Merrow Ti'Ti'," disse Gentle.

"Impossibile," rispose Pie.

"Perché?"

"Era una pura invenzione," disse Pie. "Come tutte le cose che preferisco, incluso me stesso! Pura invenzione!"

 

19

 

I

 

Sebbene Jude avesse giurato, in stato di assoluta sobrietà, di seguire Gentle dovunque lo avesse visto andare, i suoi propositi vennero ostacolati da numerose richieste che la impegnarono totalmente, la più pressante delle quali venne da parte di Clem: l'amico ebbe infatti bisogno del suo consiglio, del suo conforto e delle sue capacità organizzative nei tristi e piovosi giorni che seguirono Capodanno. Nonostante l'urgenza degli altri suoi impegni, Jude non poteva certamente voltargli le spalle. Il funerale di Taylor ebbe luogo il 9 gennaio, con una cerimonia che Clem si sforzò di rendere perfetta. Fu un trionfo di malinconia: un'occasione per gli amici e i conoscenti di Taylor di mescolarsi ed esprimere il loro affetto per lo scomparso. Jude incontrò persone che non vedeva da anni, e quasi tutti, se non tutti, notarono e commentarono un'assenza piuttosto evidente: Gentle. Jude ripeté a dritta e a manca quello che aveva già detto a Clem: Gentle aveva attraversato un brutto periodo, e l'ultima volta che aveva avuto sue notizie stava pensando di prendersi una vacanza. Naturalmente Clem non accettò scuse tanto vaghe. Gentle era partito ben sapendo che Taylor era morto, e Clem considerava la sua partenza un atto di viltà. Jude non cercò di difendere il girovago. Tentò semplicemente di parlare il meno possibile di Gentle in presenza di Clem.

Ma l'argomento continuò a riaffiorare, in un modo o nell'altro. Riordinando le cose di Taylor dopo il funerale, Clem trovò tre acquarelli, dipinti da Gentle nello stile di Samuel Palmer, ma firmati con il suo nome e dedicati a Taylor. I dipinti, paesaggi idealizzati, portarono i pensieri di Clem all'amore non corrisposto di Taylor per il disperso, e quelli di Jude al luogo nel quale Gentle era svanito. Erano tra le poche cose che Clem, forse per vendetta, voleva distruggere, ma Jude lo convinse a non farlo. Clem ne tenne uno in ricordo di Taylor, diede il secondo a Klein e il terzo a Jude.

I suoi doveri verso Clem non solo portarono via a Jude moltissimo tempo, ma la distolsero anche dagli altri suoi impegni. Così, quando verso la metà del mese Clem annunciò improvvisamente che il giorno seguente sarebbe partito per Tenerife, per abbronzare un tantino i suoi problemi, Jude fu felice di essere sollevata dai doveri quotidiani di amica e consolatrice, ma si scoprì incapace di ritrovare quell'entusiasmo che l'aveva infiammata durante le prime ore del mese. Aveva però un'improbabile prova: il cane. Le bastava guardare il botolo per ricordare come se fosse successo un'ora prima il momento in cui si era trovata sulla porta dell'appartamento di Gentle, e aveva visto la coppia dissolversi di fronte ai suoi occhi attoniti. E, insieme a quel ricordo, tornava il pensiero delle notizie che era andata a portare a Gentle quella notte: il viaggio in sogno provocato dalla pietra che adesso se ne stava nascosta alla vista nel suo armadio. Jude non era una patita dei cani, ma quella notte aveva portato con sé il bastardo, sapendo che se non l'avesse fatto sarebbe morto.

Jude entrò velocemente nelle sue grazie, e l'animale scodinzolava un appassionato benvenuto quando lei tornava a casa ogni sera dopo essere stata da Clem; sgusciava furtivamente nella sua stanza da letto nelle prime ore del mattino e si creava una cuccia tra i suoi vestiti sporchi. Jude lo chiamò Pelle, dato che era quasi senza pelo, e anche se non lo amava svisceratamente come lui amava lei, era comunque felice della sua compagnia. Più di una volta si scoprì a parlare a lungo con lui, mentre l'animale si leccava le zampe o le palle, e quei monologhi le davano l'opportunità di mettere a fuoco i suoi pensieri senza temere di impazzire. Tre giorni dopo la partenza di Clem verso climi più soleggiati, discutendo con Pelle su cosa avrebbe dovuto fare, venne fuori il nome di Estabrook.

"Tu non hai conosciuto Estabrook," disse a Pelle. "Ma sono sicura che non ti piacerebbe. Ha cercato di farmi ammazzare, lo sai?"

Il cane alzò lo sguardo interrompendo la toilette.

"Sì, ero stupita anch'io," proseguì Jude. "Voglio dire, è peggio di un animale, giusto? Con tutto il rispetto, ma è proprio così. Io ero sua moglie. Io sono sua moglie. E ha cercato di farmi ammazzare. Cosa faresti tu, se fossi in me? Sì, lo so, dovrei vederlo. Aveva l'occhio blu nella sua cassaforte. E quel libro! Un giorno devi ricordarmi di raccontarti del libro. No, forse non dovrei. Ti farebbe venire delle strane idee."

Pelle posò la testa sulle zampe incrociate, emise un piccolo sospiro di soddisfazione, e si assopì.

"Sei davvero di grande aiuto," disse Jude. "Io ho bisogno di qualche consiglio. Che cosa dici a un uomo che ha cercato di farti uccidere?"

Gli occhi di Pelle erano chiusi, e Jude fu costretta a rispondersi da sola.

"Cosa gli dici? Ciao, Charlie, perché non mi racconti la storia della tua vita?"

 

II

 

Il giorno seguente Judith telefonò a Lewis Leader per sapere se Estabrook fosse ancora ricoverato in ospedale. L'avvocato le rispose di sì, ma aggiunse che era stato spostato in una clinica privata di Hampstead. Leader le fornì ulteriori particolari sul luogo in cui si trovava e Jude telefonò per informarsi sulle condizioni di Estabrook e sull'orario di visita. Le dissero che era ancora sotto stretta osservazione, ma che sembrava stare un po' meglio, e che lei sarebbe stata la benvenuta in qualsiasi momento avesse deciso di andare a trovarlo. Sembrava inutile ritardare l'incontro. Quella sera stessa Judith guidò fino a Hampstead sotto un altro temporale tumultuoso, e venne accolta dall'infermiere psichiatrico che si occupava di Estabrook, un giovane chiacchierone di nome Maurice che perdeva il labbro superiore a ognuno dei suoi frequenti sorrisi, e parlava con entusiasmo quasi indiscreto dello stato mentale del paziente.

"Ha dei giorni buoni," disse allegramente Maurice. Poi, con la stessa allegria: "Ma non sono molti. E ancora depresso. Prima di venire da noi ha tentato di suicidarsi, ma ora si è calmato un po'."

"È sotto sedativi?"

"Noi lo aiutiamo a tenere sotto controllo l'ansia, ma non è annebbiato al punto da non capire più niente. Altrimenti non potremmo aiutarlo a giungere alla radice del problema."

"Le ha detto che cos'è che lo turba?" chiese lei, pensando di sentirsi rivolgere delle accuse.

"E davvero poco chiaro," rispose Maurice. "Parla di lei con molto affetto, e sono sicuro che la sua visita gli farà molto bene. Ma il problema risiede, ovviamente, nei suoi parenti più prossimi. Sono riuscito a farlo parlare un po' di suo padre, ma è molto guardingo. Il padre è morto, questo lo sappiamo, ma forse lei potrebbe aiutarci a gettare un po' di luce sul fratello."

"Non l'ho mai incontrato."

"È un peccato. Charles prova chiaramente una grande collera verso il fratello, ma non riesco a capire perché. Forse occorre soltanto un po' di tempo. È molto bravo a tenere per sé i segreti, vero? Questo lei probabilmente lo sa già. Vuole che l'accompagni da lui? Gli ho detto che aveva chiamato, perciò penso che la stia aspettando."

Jude era irritata che l'elemento sorpresa fosse stato neutralizzato; che Estabrook avesse avuto il tempo di preparare finzioni e menzogne. Ma ciò che era fatto era fatto, e anziché prendersela con il giulivo Maurice per la sua indiscrezione, preferì tenersi la stizza per sé: avrebbe potuto avere bisogno dell'assistenza sorridente dell'uomo.

La stanza di Estabrook era assai gradevole. Grande e confortevole; le pareti adorne di riproduzioni di Monet e Renoir ne facevano un luogo rilassante. Anche il concerto per pianoforte che si udiva dolcemente in sottofondo, sembrava studiato apposta per placare una mente disturbata. Estabrook non era a letto, ma stava seduto vicino alla finestra, una delle tende tirata da una parte per permettergli di guardare la pioggia. Indossava un pigiama, la vestaglia migliore, e stava fumando. Come aveva detto Maurice, era chiaramente in attesa di una visita. Non ci fu alcun moto di sorpresa quando lei apparve sulla porta. E, come Jude aveva previsto, Estabrook aveva pronto il suo benvenuto.

"Finalmente un viso familiare."

Non si mosse per abbracciarla; fu lei che andò da lui e lo baciò leggermente su entrambe le guance.

"Una delle infermiere ti porterà qualcosa da bere, se vuoi," disse lui.

"Sì, gradirei del caffè. Fuori fa molto freddo."

"Forse può andarlo a prendere Maurice, se gli prometto di aprirgli domani la mia anima."

"Lo farà?" chiese Maurice.

"Sì. Lo prometto. Domani a quest'ora lei conoscerà i segreti della mia pazzia."

"Latte e zucchero?" chiese Maurice.

"Solo latte," rispose per Judith Charlie. "A meno che i suoi gusti non siano cambiati."

"No," disse lei.

"Naturalmente no. Judith non cambia. Judith è eterna."

Maurice si ritirò, lasciandoli a parlare. Non ci fu un silenzio imbarazzato. Lui si era preparato il discorso, e mentre recitava belle frasi su quanto fosse felice della sua visita, e sulla speranza che essa aprisse la strada al perdono, Judith studiò il suo viso cambiato. Charlie aveva perso peso, era senza parrucchino e la sua fisionomia rivelava caratteri che lei non aveva mai visto prima. Il naso largo e la bocca piegata verso il basso, con un labbro superiore enorme proteso in fuori, gli davano un aspetto da aristocratico in un momento di difficoltà. Judith dubitava di poter essere un giorno di nuovo capace di amarlo, ma poteva certamente riuscire a provare pietà, vedendolo ridotto così.

"Immagino che tu voglia il divorzio," disse lui.

"Possiamo parlarne un'altra volta."

"Hai bisogno di soldi?"

"Per il momento no."

"Se dovessi..."

"Te li chiederò."

Un infermiere apparve con del caffè per Jude, una cioccolata calda per Estabrook, e dei biscotti. Quando se ne fu andato, Judith decise di fargli una confessione. Una da parte sua, pensò, ne avrebbe forse suscitata un'altra da parte di Charlie.

"Sono stata a casa," disse. "Per prendere i miei gioielli."

"E non sei riuscita ad aprire la cassaforte."

"Oh no. L'ho aperta." Lui non la guardò, ma continuò a sorseggiare rumorosamente la cioccolata. "E ho trovato delle cose molto strane, Charlie. Te ne vorrei parlare."

"Non so che cosa tu possa aver trovato."

"Dei souvenir. Un pezzo di statua. Un libro."

"No," disse lui, continuando a non guardarla. "Non sono miei. Non so cosa siano. Oscar me li ha dati perché glieli conservassi."

Ecco un collegamento interessante. "Dove li ha presi Oscar?" gli chiese.

"Non ho indagato," rispose Estabrook con aria distaccata. "Sai, viaggia molto."

"Vorrei incontrarlo."

"Sarebbe meglio di no," disse lui velocemente. "Non ti piacerebbe affatto."

"I giramondo sono sempre interessanti," insistette lei, cercando di mantenere allegro il tono della sua voce.

"Te l'ho detto," ripeté lui. "Non ti piacerebbe."

"È venuto a trovarti?"

"No. E se lo facesse non lo vorrei vedere. Perché mi fai queste domande? Non ti sei mai preoccupata di Oscar, prima."

"Lui è tuo fratello," disse lei. "Ha qualche responsabilità familiare."

"Oscar? Non gli interessa nessuno tranne se stesso. Mi ha dato quei regali come fossero un boccone gettato al cane."

"Allora erano regali. Pensavo che tu li dovessi solo custodire."

"Ha importanza?" disse lui, alzando un po' la voce. "Solo, non toccarli. Sono pericolosi. Li hai rimessi a posto, vero?"

Lei mentì e gli disse di sì, comprendendo che qualsiasi ulteriore discussione sull'argomento lo avrebbe solo fatto infuriare maggiormente.

"C'è un bel panorama dalla finestra?" gli chiese.

"La brughiera," rispose lui. "Sembra molto bella nelle giornate di sole. Ci hanno trovato un cadavere lunedì. Una donna strangolata. Ieri e oggi li ho visti frugare tra i cespugli per tutto il giorno, immagino alla ricerca di indizi. Con questo tempo. Orribile, stare fuori con questo tempo, scavando in giro per cercare di trovare della biancheria sporca o roba simile. Te lo immagini? Ho pensato: sono dannatamente fortunato a stare qui, caldo e comodo."

Se c'era una qualsiasi indicazione di cambiamento nei suoi processi mentali, era lì, in quella strana digressione. L'Estabrook di un tempo non si sarebbe mai dilungato in una qualsiasi conversazione che non servisse a uno scopo preciso. Niente suscitava il suo disprezzo quanto i pettegolezzi e chi li faceva, specialmente quando sapeva di essere il soggetto delle chiacchiere. E guardare fuori da una finestra chiedendosi come se la passassero gli altri al freddo sarebbe stato letteralmente impensabile per lui soltanto due mesi prima. Il cambiamento le piaceva, quanto le piaceva la nuova nobiltà nel suo profilo. Vedere l'uomo nascosto uscire allo scoperto le diede fiducia nel proprio giudizio. Forse era questo l'Estabrook che aveva amato per tutto quel tempo.

Parlarono ancora per un poco, senza tornare a toccare nessuna delle questioni personali tra loro, e si separarono in modo amichevole, con un abbraccio davvero sincero.

"Quando tornerai?" le chiese.

"Tra qualche giorno," gli disse Judith.

"Ti aspetterò."

Così, i regali che aveva trovato nella cassaforte provenivano da Oscar Godolphin. Oscar il misterioso, che aveva mantenuto il nome di famiglia mentre il fratello Charles lo aveva ripudiato; Oscar l'enigmatico; Oscar il giramondo. Fin dove si era spinto, si chiese Judith, per essere tornato con tali trofei? Iniziò a sospettare che ci fosse qualche cospirazione. Se due uomini che non si conoscevano, Oscar Godolphin e John Zacharias, sapevano dell'esistenza di un altro mondo e come andarci, quanti altri nel suo giro ne erano a conoscenza? Era un'informazione accessibile soltanto agli uomini? Veniva trasmessa insieme al pene e al complesso di Edipo, come se fosse una parte dell'organismo maschile? Taylor lo aveva saputo? E Clem? O era una specie di segreto di famiglia, e la parte del puzzle che le mancava era il collegamento tra Godolphin e Zacharias?

Quale che fosse la spiegazione, era sicura che non avrebbe avuto risposta da Gentle, e ciò significava che doveva cercare Oscar. Dapprima tentò la strada più diretta: l'elenco del telefono. Ma il nome non era registrato. Allora tentò per il tramite di Lewis Leader, ma questi affermò di non sapere dove si trovasse o come stesse l'uomo, che i due fratelli non avevano affari in comune e che personalmente non aveva mai avuto a che fare con Oscar Godolphin. "Per quel che ne so," concluse, "potrebbe essere morto." Trovando bloccate le vie dirette, Judith dovette ripiegare su quelle indirette. Tornò alla casa di Estabrook e la mise sottosopra, cercando l'indirizzo di Oscar o un suo numero di telefono. Non trovò nessuno dei due, ma scovò invece un album di fotografie che Charlie non le aveva mai mostrato nel quale si trovavano fotografie di quelli che lei riconobbe subito per i due fratelli. Non era difficile distinguerli. Anche nelle prime fotografie Charlie aveva uno sguardo preoccupato che la macchina fotografica riusciva sempre a catturare, mentre Oscar, pur essendo più giovane di una mezza dozzina d'anni, appariva, tra i due, il più sicuro di sé; un po' sovrappeso, ma non troppo, esibiva un sorriso disinvolto mentre metteva il braccio sulle spalle del fratello. Judith prese dall'album la fotografia più recente, che rappresentava Charles nella pubertà, o giù di lì, e se la tenne. Trovò che la ripetizione rendeva il furto più facile. Ma quella fu l'unica informazione su Oscar che portò con sé. Se voleva trovare il viaggiatore, e scoprire in quale mondo aveva acquistato i suoi souvenir, avrebbe dovuto lavorarsi Estabrook. Ci sarebbe voluto del tempo, e invece la sua impazienza aumentava a ogni breve giornata piovosa. Anche se era libera di acquistare un biglietto verso qualunque luogo del pianeta, era oppressa da un senso di claustrofobia. C'era un altro mondo al quale voleva accedere. Fino a quando non ci fosse riuscita, la Terra le sarebbe parsa una prigione.

 

III

 

Leader chiamò Oscar la mattina del 17 gennaio, con la notizia che la moglie separata di suo fratello stava chiedendo dove si trovasse.

"Ti ha detto perché?"

"No, non esattamente. Ma è ovvio che è sulle tracce di qualcosa. Sembra che la settimana scorsa abbia visitato tre volte Estabrook."

"Grazie, Lewis. Apprezzo molto."

"Apprezzalo in contanti, Oscar," replicò Leader. "Ho avuto un Natale molto costoso."

"Quando mai ti ho lasciato a mani vuote?" chiese Oscar. "Tienimi informato."

L'avvocato promise di farlo, ma Oscar dubitava che avrebbe potuto fornirgli altre informazioni utili. Solo gli animi veramente disperati confidavano negli avvocati, e lui dubitava che Judith fosse tipo da disperarsi. Non l'aveva mai conosciuta - Charlie aveva fatto in modo di evitarlo - ma, se era sopravvissuta alla compagnia di suo fratello, doveva avere una volontà d'acciaio. E questo fece nascere in Oscar due domande: perché una donna a conoscenza del piano del marito per ucciderla cercava poi la sua compagnia, se non per qualche necessità imprescindibile? Ed era concepibile che la necessità fosse quella di trovare suo fratello Oscar? Se sì, una tale curiosità doveva venir neutralizzata sul nascere. Ormai c'erano già fin troppe variabili in gioco, con l'epurazione della Società ormai avviata, e l'inevitabile indagine della polizia alle porte, per non parlare del suo nuovo maggiordomo Augustine (nato Dowd) che si stava comportando in modo davvero troppo sprezzante. E naturalmente la più volubile di queste variabili, seduta nella sua casa di cura accanto alla brughiera, era Charlie stesso, probabilmente pazzo, certamente imprevedibile, con la testa piena di ogni sorta di notizie ghiotte che potevano danneggiare molto Oscar. Forse tra poco sarebbe diventato loquace: e, quando ciò fosse accaduto, quale orecchio migliore al quale confidare i suoi segreti di quello della moglie indagatrice?

Quella sera Oscar mandò Dowd (non riusciva ad abituarsi a quel pio Augustine) alla clinica, con un cesto di frutta per suo fratello.

"Fatti un amico lì, se ci riesci," disse a Dowd. "Devo sapere di cosa parla Charlie quando gli fanno il bagno."

"Perché non glielo chiede direttamente?"

"Mi odia, ecco perché. Crede che io abbia rubato il suo piatto di lenticchie quando Papà mi ha introdotto nella Tabula Rasa al posto suo."

"Perché suo padre ha fatto una cosa del genere?"

"Perché sapeva che Charlie era un insicuro, e che avrebbe fatto più male che bene alla società. Finora l'ho tenuto sotto controllo. Ha ricevuto i suoi piccoli regali dai Domini. Ha avuto te, sempre pronto a correre quando aveva bisogno di qualcosa fuori dell'ordinario, come il suo sicario! Tutto è cominciato con quel cazzo di assassino! Perché non potevi uccidere tu la donna?"

"Per cosa mi prende?" disse Dowd con disgusto. "Non potrei mai mettere le mani su una donna. Specialmente non su una simile bellezza."

"Come fai a sapere che è bella?"

"Ne ho sentito parlare."

"Be', non mi interessa il suo aspetto. Non voglio che si immischi nei miei affari. Scopri che cosa ha in mente. Poi penseremo a come agire."

 

Dowd tornò qualche ora dopo con novità allarmanti.

"Pare che l'abbia persuaso a portarla alla Proprietà."

"Cosa? Cosa?" Oscar saltò dalla sedia. I pappagalli emisero grida rauche in solidarietà. "Sa già più di quanto dovrebbe. Merda! Tutta quella fatica per tenere la Società alla larga, e adesso arriva questa puttana a metterci nei guai."

"Non è ancora successo niente."

"Ma succederà, prima o poi! Se lo lavorerà ben bene e lui le dirà tutto."

"Che cosa intende fare?"

Oscar cercò di far tacere i pappagalli. Mentre lisciava le ali arruffate dei pennuti disse: "Idealmente, farei scomparire Charlie dalla faccia della terra."

"Lui voleva fare lo stesso con la donna," osservò Dowd.

"E allora? Cosa significa?"

"Solo che siete entrambi capaci di uccidere."

Charlie emise un grugnito sprezzante. "Charlie stava solo facendo finta," disse. "Non ha le palle! Non ha intuito!" Oscar tornò alla sua poltrona con lo schienale alto; la faccia era cupa. "Non durerà, dannazione," continuò. "Me lo sento nella pancia. Fino ad ora abbiamo mantenuto le cose precise e pulite, ma non durerà. Charlie dev'essere eliminato dall'equazione."

"È suo fratello,*